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Periodico registrato presso il Tribunale di Ancona n. 13 del 10 maggio 2012

ISSN: 2280-756X

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Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Editoriale n. 3

Andrea Bonfiglio
Università Politecnica delle Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Questo numero di Agrimarcheuropa è imperniato sul tema dello sviluppo sostenibile nelle aree rurali con particolare attenzione alle problematiche e alle opportunità delle zone montane.  Si apre con un contributo rivolto ad analizzare il ruolo e l’importanza dell'agricoltura biologica nella produzione dei beni pubblici richiesti dalla società e nel mantenimento della vitalità delle aree rurali, specie quelle marginali. Il numero prosegue con un articolo che illustra i risultati economici conseguiti dalle aziende agricole di montagna sulla base di diversi criteri di classificazione. Offre poi uno studio volto ad evidenziare le opportunità e i problemi della trasformazione aziendale e della vendita diretta nelle aziende zootecniche, fondato sui risultati di alcuni casi di allevamenti bovini da carne e suinicoli dell’Appennino maceratese e su indagini svolte in altre regioni. E' presente inoltre un contributo sulle reali necessità del settore forestale e sul bisogno, in particolare, di una maggiore informazione e divulgazione in merito alla gestione sostenibile delle foreste. Ad esso fa seguito una analisi preliminare del fenomeno di diffusione del fotovoltaico nelle Marche, ponendo in evidenza limiti, opportunità e sfide per le imprese agricole e per i decisori politici. La gestione sostenibile in chiave storica è l’argomento del contributo successivo che illustra il sistema forestale camaldolese, costruito mille anni fa attorno al sacro eremo di Camaldoli nel Casentino e i cui insegnamenti e principi gestionali mostrano ancora tutta la loro attualità.  Il tema dello sviluppo sostenibile e della forestazione è arricchito infine da una analisi dello stato di attuazione delle misure forestali previste nel PSR, accompagnata da utili raccomandazioni per una corretta definizione delle strategie regionali del prossimo periodo di programmazione, e da una richiamo alla Carta di Fonte Avellana, documento strategico per lo sviluppo dei territori montani, nel quadro delle politiche e degli strumenti a sostegno del settore forestale.
La rivista offre anche due ulteriori approfondimenti su temi specifici. Un primo intervento sintetizza i risultati di una ricerca sull’impatto della crisi economico-finanziaria sull’agricoltura marchigiana. Un secondo analizza la tipologia e l’incidenza delle malattie professionali che colpiscono i lavoratori del settore agricolo.
Il numero si conclude con una scheda in ricordo di Abertino Castellucci, “la cui sollecitudine più costante fu il mondo agricolo marchigiano e la necessità di una migliore qualificazione sociale e culturale dei coltivatori diretti”.

Agricoltura biologica e sostenibilità nelle aree rurali: quali politiche?

Elena Viganò1, Vincenzo Vizioli2
1 Università degli Studi di Urbino, 2 FIRAB

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Introduzione

L’analisi dell'evoluzione della Politica Agraria Comunitaria (PAC) evidenzia la crescente attenzione rivolta al ruolo dell’agricoltura nel garantire un determinato livello di qualitg della vita ai cittadini, residenti nelle zone rurali (e non). Così, accanto alla produzione di alimenti, è divenuta sempre più rilevante quella di esternalità positive di carattere ambientale e socio-economico; ciò si è verificato soprattutto in relazione alla definizione degli obiettivi in quanto, sul piano dell’attuazione delle misure, la PAC, nel corso degli anni, non ha sostanzialmente modificato la situazione in cui un numero limitato di aziende assorbe una larghissima quantità di risorse, sulla base dell’estensione territoriale, piuttosto che dei benefici sociali forniti e tantomeno della tecnica colturale utilizzata.

Se si dovessero perseguire le premesse, contenute anche nella proposta di riforma attualmente in discussione, appare chiaro che l’agricoltura biologica rappresenta il modello produttivo più efficace nel promuovere un processo di sviluppo sostenibile, in termini ambientali, economici e sociali.
Questo lavoro si propone di analizzare il contributo dell'agricoltura biologica nella produzione dei beni pubblici richiesti dalla società e le sue dinamiche di mercato e settoriali, al fine di identificare i principali nodi da sciogliere per mantenere, attraverso la diffusione di questo modello, la vitalità delle aree rurali, con particolare riferimento a quelle definite, forse con troppa superficialità, marginali.

 

Le esternalità dell’agricoltura biologica

L'impatto ambientale di diverse pratiche agronomiche e diversi sistemi produttivi  agricoli è stato valutato in numerosi studi, che, sebbene difficilmente generalizzabili, in quanto riferiti a specifiche realtà, particolari colture/allevamenti o determinate tecniche agronomiche, mostrano gli effetti positivi dell'agricoltura biologica, in termini di emissioni di gas serra, assorbimento energetico, consumo e qualità delle acque, adattabilità ai cambiamenti climatici, tutela della biodiversità e del paesaggio. Ad esempio, le quantità di carbonio fissato nel terreno risultano significativamente elevate nei sistemi agricoli biologici, specialmente in presenza di zootecnia (Tabella 1) o con una particolare combinazione di pratiche agronomiche, proprie del metodo biologico, quando applicato nei suoi principi fondanti (Tabella 2), peraltro non tutti obbligatori nell'applicazione del Reg. (CE) 834/07. 

Tabella 1 - Valori medi di carbonio sequestrato nel terreno in diversi sistemi agricoli (kg/ha/anno)

(1) Convenzionale: mais e soia in rotazione senza sovesci e con uso di input di sintesi
(2) Biologico senza zootecnia: frumento, mais, soia con sovesci di veccia su mais e segale su soia
(3) Biologico con zootecnia: medica da foraggio, frumento, mais, soia e utilizzo del compost prima del mais
Fonte: FIBL, 2007

Tabella 2 – Stima del carbonio sequestrato nel terreno per tipo di intervento agronomico (kg/ha)

Fonte: FIBL, 2007

In altri termini, oltre alla sostituzione dei prodotti chimici di sintesi utilizzati nell'agricoltura convenzionale con i prodotti organici ammessi, è proprio l'attuazione dei suoi principi fondanti che rendono virtuoso il metodo biologico, in termini ambientali ma anche di risultati produttivi e ricaduta sociale. Tali principi implicano la sostituzione della cultura della nutrizione diretta della pianta, che considera il terreno come un semplice substrato, con quella della “nutrizione del suolo per nutrire la pianta”, che concepisce il suolo alla stregua di un organismo vivente, che ha nella sostanza organica il suo regolatore metabolico. L'aumento della complessità dell’ecosistema suolo-azienda, mediante la cura della sostanza organica, la diversità colturale (connessa alla pratica degli avvicendamenti) e il collegamento con l’allevamento, diventa, così, indispensabile per incrementare il livello di fertilità e di resilienza (FIBL, 2008).
In termini di sostenibilità generale, è importante richiamare l'attenzione sul fatto che i migliori risultati si ottengono quando i sistemi agricoli biologici sono accompagnati dall'adozione, da parte dei consumatori, di stili alimentari corretti. La riduzione dell'apporto di calorie e di proteine animali e il consumo di prodotti locali rappresentano un passaggio difficile ma inderogabile, per contenere l’emissione di gas serra, ridurre l'inquinamento, ma anche per promuovere lo sviluppo rurale e garantire la salute dei cittadini. Peraltro, anche rispetto alla qualità dei prodotti, l'agricoltura biologica sembra fornire risultati migliori rispetto a quella convenzionale, soprattutto per l'assenza di residui indesiderati e per la maggiore presenza di principi nutritivi importanti per la salute (FIBL, 2007), aspetti importanti di una dieta sana ed equilibrata, come confermato anche da numerosi lavori dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.

 

L’agricoltura biologica: dinamiche di mercato e settoriali

Il mercato del biologico registra un costante sviluppo in diversi Paesi, inclusa l'Italia, dove il livello del fatturato ha raggiunto, nel 2010, i 1.550 milioni di euro, con un incremento del 14,8%, rispetto all'anno precedente. I consumi biologici, che rappresentano una quota intorno al 2% della spesa alimentare, risultano significativi e tendenzialmente crescenti, con tassi stimati intorno all'11,6% nel 2010 e all'8,9% nel 2011, seppur con andamenti differenziati a seconda delle categorie considerate; ciò conferma il forte interesse verso questi prodotti, contrariamente a quanto avviene per quelli agroalimentari in generale, che risultano più sensibili al perdurare della crisi economica. Il 71% circa del valore degli acquisti domestici è concentrato nelle regioni settentrionali, ma gli incrementi più significativi si registrano in quelle del Sud-Italia; in costante crescita risultano le vendite nella GDO, nel dettaglio tradizionale e specializzato, così come nei cosiddetti canali alternativi (privati e istituzionali), soprattutto nelle mense biologiche e nei Gruppi di Acquisto Solidale (www.ismea.it).
L'aspetto cruciale da evidenziare è che l'espansione del mercato, che finalmente negli ultimi anni ha coinvolto anche la domanda interna, non è stata accompagnata da un generale potenziamento del sistema produttivo nazionale, quanto da un aumento della dipendenza dall'estero.
A fronte di una perdita generale di aziende agricole (pari a oltre il 30% del totale in soli dieci anni), specialmente nelle aree montane e collinari, il numero di produttori biologici esclusivi si è ridotto, nel 2011, del 2%, rispetto al 2010, sebbene con dinamiche regionali molto differenziate, anche in funzione dagli aiuti stanziati dai Programmi di Sviluppo Rurale (PSR). Le aziende zootecniche, in particolare, sono diminuite, nel 2011, del 6,4%, rispetto all'anno precedente, con tassi in controtendenza solo in alcune regioni settentrionali (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) in Calabria e in Sardegna. Al mancato sviluppo del sistema produttivo, si è contrapposto il potenziamento dell'industria di trasformazione e dell'importazione (www.sinab.it). Pur in presenza di trend contrastanti nei diversi comparti, le importazioni sono nuovamente cresciute, dopo la flessione del 2009; ciò vale per quelle provenienti dai Paesi non in regime di equivalenza e da quelli in regime di equivalenza o da altri Paesi dell'Unione Europea (anche di origine extra comunitaria) (Rete Rurale Nazionale, 2011). È aumentata così l'immissione sul mercato di prodotti (cereali, ortofrutta, olio d'oliva) che offrono garanzie inferiori in termini di standard di qualità rispetto a quelli europei, in quanto ottenuti nel rispetto di un disciplinare, spesso fornito dallo stesso organismo di controllo, che si intende equiparato al Regolamento dell'UE. Peraltro, sul fronte delle esportazioni, l'Italia è sicuramente tra i paesi leader a livello mondiale, in quanto una parte significativa della produzione biologica (di indubbia eccellenza e con spiccata caratterizzazione Made in Italy) viene indirizzata verso i paesi europei (soprattutto Germania, Gran Bretagna, Francia), gli Stati Uniti, il Giappone e, recentemente, anche verso Australia, America Latina e paesi asiatici (FIRAB, 2011).
Gli andamenti dei flussi commerciali evidenziano, quindi, le opportunità di ampliamento del mercato interno per molte produzioni nazionali, ma, allo stesso tempo, confermano la crescente concorrenza dei prodotti esteri, che, tra l'altro, è destinata ad aumentare con l'approvazione del Regolamento di esecuzione UE n. 508/2012, che introduce alcuni cambiamenti nelle regole sull'importazione, estendendo il principio dell'equivalenza a un numero molto elevato di Paesi e conferendo una maggiore rilevanza all'azione degli Organismi di controllo. Una sostituzione anche parziale delle importazioni da parte dell'offerta italiana potrà realizzarsi solo mediante un deciso rafforzamento del sistema produttivo e la ridefinizione del modello di consumo a favore della stagionalità e della territorialità.

 

Quali politiche per il biologico?

Considerando i servizi ambientali e socio-economici offerti alla collettività, nonché le interessanti dinamiche di mercato (nazionale ed estero), l'agricoltura biologica avrebbe dovuto costituire il modello di sviluppo rurale da costruire e sostenere dalle politiche definite a livello Europeo e attuate dalle Regioni. Le scelte realizzate dalle Istituzioni coinvolte, soprattutto attraverso i PSR, sostanzialmente condivise dalle associazioni agricole di categoria, hanno portato, invece, alla difesa di un sistema produttivo, ingessato nella insostenibile logica della competizione basata sui costi di produzione; ciò ha contribuito a determinare l'espulsione delle piccole aziende agricole che, storicamente, hanno caratterizzato soprattutto i territori montani e collinari e che più di altre hanno garantito la tipicità delle produzioni, la salvaguardia della biodiversità e del paesaggio e, soprattutto, il governo di quel territorio, maggiormente esposto ai rischi di erosione e degrado, mediante interventi di pulitura dei fossi, regimazione delle acque e piantumazione. Questa logica è stata applicata anche al biologico, per il quale si va affermando un modello di produzione e consumo sempre più “omologato” a quello dell'agricoltura convenzionale, con crescente importanza del commercio intra-industriale e conseguente allentamento del legame tra prodotto e territorio di origine, che ne compromettono la sostenibilità economica, sociale e ambientale.
Al grave ritardo nella definizione di politiche agricole in grado di declinare la competitività come capacità di abbinare alla produzione di alimenti, la tutela della salute umana e delle risorse naturali, garantendo, allo stesso tempo, un giusto livello di reddito agli imprenditori, si aggiunge una incapacità storica di sostenere il settore del biologico mediante la fornitura di servizi per migliorare l'efficienza della filiera e l'organizzazione di mercato. In particolare, il trasferimento delle competenze necessarie per attivare un sistema produttivo del tutto coerente con i principi dell'agricoltura biologica è sostanzialmente precluso dall’assenza di una scuola italiana in materia, fondata su un modello diffuso di ricerca e sperimentazione, e di corsi di laurea specialistici, dallo smantellamento delle Agenzie Regionali per lo Sviluppo Agricolo e dall’abbandono delle attività di assistenza tecnica da parte delle associazioni di categoria.
In questo contesto, la contrazione (o il mancato sviluppo) del comparto produttivo biologico è inevitabile, il che appare paradossale se si considera la crescita della domanda interna ed esterna. A farne le spese sono proprio le aziende di montagna e di collina (che avrebbero potuto trovare nel biologico valide occasioni di mercato per proseguire nel loro ruolo di governo del territorio) e, in particolare, quelle caratterizzate dalla presenza di zootecnia, che rappresenta il settore maggiormente trascurato dalla politica agricola, tesa a difendere un modello di allevamento energivoro, inquinante, in competizione con l'alimentazione umana e in grande difficoltà nel garantire il benessere animale. Sarebbero, invece, proprio le zone montane o, più in generale, quelle marginali, che potrebbero dare il giusto indirizzo all'evoluzione di una zootecnia sostenibile e valorizzata dal modello biologico. L'allevamento estensivo basato sul pascolo prevede, infatti, che le mandrie trovino direttamente sul territorio la parte più importante della loro razione alimentare, invece di consumare cereali e proteaginose, in quanto “progettate” per trasformare in energia i foraggi, cioè i prodotti più semplici della fotosintesi. Ciò garantisce non solo il benessere animale e una migliore qualità delle produzioni, ma anche il mantenimento, per quei territori considerati marginali rispetto al modello agricolo convenzionale, della loro vocazionalità e della loro vitalità.
Le occasioni per sostenere la buona pratica biologica e, tramite questa, il ruolo di governo del territorio, soddisfacendo anche le motivazioni salutistiche alla base delle scelte dei cittadini a favore di questo settore, sarebbero molte, a partire dalla riforma della PAC e dalla revisione dei PSR, considerando anche la questione cruciale della relazione esistente tra pratiche di gestione responsabile delle risorse naturali e lotta ai cambiamenti climatici discussa nella Conferenza delle Nazioni Unite “Rio+20”. Ma, ancora una volta, il passaggio dai documenti preparatori, al dibattito politico, all'attuazione delle misure non sembra cogliere il bisogno di cambiamento che si avverte a livello sociale, prefigurando l'ennesimo fallimento istituzionale nel promuovere lo sviluppo sostenibile delle diverse aree rurali.

 

Riferimenti

FIBL (2007), Qualità e sicurezza dei prodotti biologici. Sistemi di produzione a confronto, AIAB, Roma.
FIBL (2008), L’azienda biologica ha un maggiore potenziale d’adattamento ai cambiamenti climatici?, AIAB, Roma.
FIRAB, ISMEA (2011), Indagine sull'export nel mercato interno dell'Unione Europea del settore biologico italiano, Biofach 2012.
Rete Rurale Nazionale (2011), Bioreport, Roma.

I risultati economici delle aziende agricole di montagna

Analisi strutturale e reddituale e confronto fra classificazioni altimetriche


Sonia Marongiu, Luca Cesaro
Istituto Nazionale di Economia Agraria

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Introduzione

Secondo i dati dell’ISTAT (2004), in Italia, le aree montane rappresentano circa il 54% del territorio. In tali aree, le attività agricole, selvicolturali e l’allevamento hanno una importanza rilevante e, molto spesso, risultano essere le uniche in grado di garantire la permanenza delle popolazioni e di evitare situazioni di estrema marginalità. Nonostante non esista a livello comunitario una politica agricola specifica per queste zone, nel corso del tempo si è intervenuti a loro supporto tramite diversi strumenti, in particolare attraverso i programmi di sviluppo rurale e le politiche regionali. La prospettiva futura  legata alla probabile applicazione degli schemi di regionalizzazione della PAC e l’eventualità di dedicare un’area tematica di intervento alla montagna, suggerisce di iniziare ad analizzare con più attenzione le dimensioni dell’agricoltura nelle aree montane. Tale analisi è complicata dalla mancanza di una definizione univoca di montagna, tanto è vero che il modello che si tende ad adottare è quello di una montagna “a macchia di leopardo”, con alternanza di aree forti ed aree deboli, seppur collocate nella stessa categoria altimetrica (UNCEM, 2002).

C’è differenza fra montagna alpina ed appenninica e il quadro cambia a seconda delle attività prese in considerazione.
Nel caso dell’agricoltura, in particolare, l’altitudine rappresenta un fattore limitante e pertanto redditi e produttività differiscono notevolmente dalle aziende collocate ad altitudini inferiori. Contemporaneamente, però, lo svolgimento di tali attività in aree montane obbliga a una riflessione sui beni pubblici connessi (ambiente, paesaggio, cultura, ecc.) e sulla necessità di tutelare e incentivare la presenza dell’uomo (Nordregio, 2004).
Il presente lavoro vuole dare un quadro delle caratteristiche reddituali delle aziende agricole di montagna partendo dai dati contabili della RICA, che fanno riferimento a un campione rappresentativo delle aziende agricole nazionali. Il periodo considerato è il triennio 2008-2010 (i dati del 2010 sono provvisori). I dati non sono stati pesati, sono stati sottoposti ad un controllo sulle anomalie e a una procedura di eliminazione degli outliers basata sulla applicazione della distanza di Mahalanobis su due variabili ritenute importanti per l’analisi di bilancio (PLV ad ettaro e i costi correnti ad ettaro). La procedura ha ridotto la numerosità campionaria del 18,6% e la SAU del 10,5% nel triennio considerato. E’ stato escluso l’orientamento tecnico ortofloricolo nell’analisi degli indicatori reddituali.

 

Classificazione della montagna nella RICA

La definizione di che cosa sia la montagna è un argomento complesso, che anima da tempo il dibattito scientifico e ha delle implicazioni sia dal punto di vita normativo che politico. Intuitivamente, la montagna  è riconducibile ad un territorio in rilievo, oltre una certa quota e con un elevato dislivello. Anche il criterio orografico, sebbene semplice, pone però delle difficoltà nel momento in cui devono essere definiti i confini: non è semplice individuare la quota oltre la quale la collina diventa montagna e d’altro canto il criterio non è sufficiente per cogliere gli aspetti e le articolazioni dei territori montani (Crescimanno et al., 2010). Non esiste pertanto un metodo di delimitazione e classificazione delle montagne applicabile in maniera universale, sebbene ci siano stati tentativi di catalogazione in tal senso (es. l’UNEP).
Anche nell’ordinamento italiano manca una definizione univoca e rigorosa di comune montano ma esistono diverse classificazioni che fanno riferimento sia a normative nazionali che comunitarie. Quasi tutte prendono in considerazione i criteri scientifici e morfologici di altimetria, pendenza e clima (seppur differenziandosi nelle soglie) ed alcune inseriscono anche variabili legate alla realtà socio-economica e alla marginalità della zona interessata. Tra i criteri utilizzati ce ne sono due che sono stati presi in considerazione dal presente lavoro. Il primo è quello della montagna statistica dell’ISTAT, che classifica i comuni italiani in cinque zone altimetriche. Si parla di montagna (interna e litoranea) con riferimento ai comuni con notevoli masse di territorio collocato ad altitudine superiore ai 600 m slm nell’Italia settentrionale e 700 m slm nell’Italia centro-meridionale e insulare. Al di sotto dei 300 m slm si ha la pianura mentre la collina (interna e litoranea) si colloca tra i due limiti. Un’altra classificazione che tiene conto dei comuni è quella della montagna legale (Legge 991 del 25 luglio 1952 e Legge 657 del 30 luglio 1957) che definisce comuni montani quelli posti per almeno l’80% della loro superficie al di sopra dei 600 m slm e quelli nei quali il dislivello tra la quota altimetrica superiore e inferiore non è minore di 600 m. Si parla di comuni totalmente montani, parzialmente montani e non montani. Il terzo criterio, reso possibile dall’informazione presente nella RICA, è quello basato sull’altitudine del centro aziendale, per il quale sono state considerate aziende agricole di montagna quelle ubicate al di sopra dei 600 m nell’Italia settentrionale e al di sopra dei 700 m nell’Italia centro meridionale e insulare.
A seconda del criterio considerato cambia la geografia della montagna e il valore degli indicatori strutturali e reddituali. La Tabella 1 mostra la numerosità campionaria media per ciascuna delle classificazioni altimetriche. Come si può notare, mentre il 95% delle aziende classificate in aree totalmente montane sono ugualmente considerate in montagna dall’ISTAT, le cose cambiano se si considera l’altitudine del centro aziendale. Appena un migliaio di aziende agricole sono ubicate ad altitudini elevate: il 46% delle aziende considerate in montagna secondo l’ISTAT sono effettivamente ubicate ad elevate altitudini.

Tabella 1 - Numerosità campionaria media in RICA per classificazione altimetrica (2008-2010)

 

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Ne deriva che una disamina basata sulla localizzazione prevalente del comune e non sull’effettiva altitudine del centro aziendale potrebbe portare a risultati non coerenti con quella che è effettivamente la situazione socio-economica delle aziende agricole di montagna e non permetterebbe di cogliere le difficoltà dovute agli svantaggi altitudinali.

 

Analisi strutturale e reddituale delle aziende agricole di montagna nella RICA

Una prima variabile che dà un’idea della dimensione fisica delle aziende è senza dubbio la SAU. Nel campione RICA considerato, la SAU totale risulta essere distribuita per il 23% in montagna, il 42% in collina e il 35% in pianura. La Tabella 2 mostra la SAU media aziendale per ciascuna delle classificazioni prese in considerazione insieme ad altre informazioni sulla tipologia di superficie. In generale, le aziende classificate in montagna hanno mediamente una SAU superiore rispetto alle classificazioni in aree non montane, dovuta soprattutto alla presenza di prati e pascoli, con una maggiore presenza di SAU in affitto. Questo influenza anche l’estensività degli allevamenti (UBA/SAU), la cui densità è inferiore nelle aziende di montagna. Anche la superficie forestale ha una maggiore importanza nelle aziende agricole localizzate in montagna se rapportato alla superficie agricola aziendale.

Tabella 2 - Tipologie di superficie per classificazione altimetrica e indice di boscosità (2008-2010)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

La Tabella 3 mostra i risultati medi degli indici strutturali e di efficienza calcolati per le aziende di montagna classificate in base al solo criterio dell’altitudine media del centro aziendale. Come emerge dai risultati esistono delle differenze sostanziali. A parte l’estensione media maggiore per le aziende agricole di montagna (73 ettari mediamente nel campione considerato), l’indagine RICA mette in evidenza anche una variazione positiva della SAU nel triennio considerato (+12,5% nelle aziende di montagna). Nelle aziende agricole di montagna si rileva inoltre una maggiore importanza del lavoro familiare rispetto al lavoro salariato, con un numero di unità che è variato di poco nel triennio (+0,5%) a differenza del lavoro salariato che ha visto una diminuzione del numero di unità, come indica il calo dell’indicatore sull’incidenza del lavoro salariato (-5,7%). Ne deriva un incremento del grado di attività espresso in termini di SAU per unità di lavoro che aumenta considerevolmente (+21,5%) nelle aziende di montagna anche come conseguenza dell’incremento delle estensioni aziendali.

Tabella 3 - Indicatori strutturali e di efficienza delle aziende per altitudine del centro aziendale (2008-2010)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Gli indici economici di PLV, valore aggiunto, prodotto netto e reddito netto sono inferiori nelle aziende di montagna rispetto a quelle ubicate ad altitudini inferiori, insieme con un trend negativo che ha riguardato tutte le aziende considerate ma in particolar modo le aziende di montagna. Nel triennio infatti la PLV è diminuita (-5,2%) mentre per gli altri indici la diminuzione oscilla tra il 10% e il 12%. La conseguenza è stato il calo della produttività della terra: mediamente la PLV per ettaro di SAU nelle aziende di montagna è risultata uguale a 5.134 €/ha con una diminuzione del 31% nel triennio che mostra una situazione di difficoltà nella quale di trovano ad operare le aziende.
Il dato sulla produttività del lavoro (PLV/UL) per le aziende agricole di montagna, pari a 34.228 euro, è ugualmente in calo nel periodo (-8,8%) a differenza delle altre aziende in cui si registra un leggero incremento (+3,1%) ad attestare un lieve segnale di miglioramento dell’efficienza economica per addetto. Una analoga riduzione si registra nel valore della redditività del lavoro familiare delle aziende di montagna, inferiore rispetto a quello delle altre aziende (pari al 68,1%) e in calo nel triennio (-21,3%).
Un dato positivo che emerge dai dati della RICA è la variazione degli aiuti comunitari alle aziende agricole di montagna nel triennio considerato (+24,5%). Gli aiuti risultano però mediamente meno consistenti di quelli ricevuti dalle altre aziende. Questo risultato potrebbe significare che le realtà agricole di montagna si sono mantenute grazie ad interventi regionali o agli enti locali. Se si legge il resoconto della Commissione Europea (2009) sull’agricoltura di montagna, emerge proprio la discriminazione nei confronti dell’agricoltura di montagna legata agli incentivi, accentuata con il disaccoppiamento e con il sistema del pagamento unico per azienda. Nonostante la presenza di misure specifiche e delle azioni dedicate allo sviluppo rurale la differenza nel livello di aiuti percepiti (minore nei paesi che hanno scelto la regionalizzazione) appare una discriminazione sempre più difficilmente giustificabile, soprattutto se si guarda alle riforme che dovrebbero sostenere la multifunzionalità e la difesa del territorio.
Per quanto riguarda la composizione dei fattori di consumo extra-aziendali, le aziende di montagna hanno una percentuale maggiore di spese per mangimi e foraggi (49,8% degli acquisti contro il 33% delle altre aziende) dovuto agli orientamenti tecnico-produttivi prevalentemente zootecnici (Tabella 4). Confrontando il 2008 con il 2010, emerge che costi sostenuti per l’acquisto dei mangimi sono rimasti pressoché invariati  nelle aziende di montagna mentre nelle altre categorie si riscontra un incremento significativo e pari al 17,3%. In montagna ad aumentare sono però i costi per la meccanizzazione. Se si osserva il parametro tecnico relativo alla potenza macchine ed espresso in KW medie aziendali, il valore per le aziende di montagna è mediamente uguale a 159 contro i 213 medi delle altre aziende. La variazione nel triennio considerato è negativa nel primo caso (-5,9%) mentre per le altre il parametro tecnico è aumentato nel triennio (+5,1%).

Tabella 4 - Struttura dei costi per altitudine del centro aziendale e variazione triennale (2008-2010)

Note: nostre elaborazioni su dati RICA


Conclusioni

Il lavoro presentato ha focalizzato la sua attenzione sui risultati della RICA nel periodo 2008-2010 e in particolare sull’analisi della struttura dei costi e dei redditi delle aziende agricole di montagna, considerate in base all’altitudine del centro aziendale, un criterio questo che meglio risponde alle esigenze di conoscere la struttura economico-reddituale delle unità operanti in tali contesti. Mentre gli indicatori strutturali hanno mostrato segni di ripresa (incremento della SAU e del numero di UBA medie aziendali) tutti gli indicatori reddituali rilevati nelle aziende di montagna, oltre ad essere più bassi rispetto alle aziende collocate ad altitudini inferiori, hanno mostrato un decremento nel triennio considerato. In particolar modo la produttività e redditività della terra, decremento dovuto in parte ad una estensione delle superfici ma in parte anche alla diminuzione del valore della PLV. Un decremento lo si è avuto anche nella produttività del lavoro ma è la redditività del lavoro familiare che ha fatto registrare il decremento maggiore, legato ad una effettiva diminuzione dei parametri di reddito netto, visto che l’entità del lavoro familiare in montagna è rimasta sostanzialmente la stessa. Quest’ultimo dato può essere dovuto probabilmente alla necessità di sopperire alla minore disponibilità di lavoro esterno, le cui unità di lavoro sono diminuite nel triennio considerato, come si evince anche dalla diminuzione dell’incidenza del lavoro salariato.
Per quanto riguarda la struttura dei costi, il 49,8% dei fattori di consumo extra-aziendali delle aziende agricole di montagna è costituito da spese per mangimi e foraggi il che è da ricollegare agli orientamenti tecnico-produttivi zootecnici. L’incremento di questi costi non è stato cosi marcato come nelle altre aziende nel triennio considerato.
Una analisi più approfondita della realtà agricola di montagna impone senz’altro la considerazione di situazioni differenziate, per macro-aggregato geografico ma anche sulla base degli ordinamenti tecnico-economici prevalenti. Questo aspetto potrebbe essere oggetto di un futuro approfondimento anche perché la possibilità che la PAC cambi e che venga introdotta la regionalizzazione rende necessaria una maggiore conoscenza delle differenze tra aree del paese.  Inoltre, da tener presente che,  per rispondere alle richieste della nuova scheda comunitaria (RI/CC 1601 del 14/01/2011 e Regolamento CE 1444/2012) le aziende rilevate con il sistema della RICA verranno georeferenziate. Questo permetterà di migliorare le analisi territoriali e di integrare le informazioni socio-economiche con quelle relative all’uso del suolo. In futuro quindi, l’integrazione tra la RICA e i sistemi GIS permetteranno di avere maggiori informazioni sull’agricoltura dei territori montani.

 

Riferimenti

Cesaro L., Marongiu S., Zanoli A. (2011) La stima dei costi di produzione: un’applicazione del modello econometrico sviluppato nel progetto FACEPA, Agriregionieuropa, anno 7, n. 27, pp. 97-100.
Commissione Europea (2009), Peak Performance. New insights into mountain farming in the European Union, Bruxelles 16-12-2009.
Crescimanno A., Ferlaino F., Rota F. (2010), La montagna del Piemonte. Varietà e tipologie dei sistemi territoriali locali, IRES Piemonte.
INEA (1995), Analisi di gestione mediante indici di bilancio (a cura di Bartola A. e Arzeni A.).
INEA (2000), Linee metodologiche e istruzioni per la gestione dei dati RICA – Continea 7, Roma.
NordRegio (2004), Mountain Areas in Europe: analysis of mountain areas in EU member states, acceding and other European Countries, European Commission contract n. 2002.CE.16.0.AT.136, Final Report.
Offermann F. (2011), Implementation, validation and results of the cost of production model using National FADN databases, FACEPA Deliverable n.31, January.
Villeneuve A., Castelein A., Mekouar M.A. (2002), Les montagnes et le droit-tendances émergentes, FAO Etude Legislative, n.75, FAO Rome.
UNCEM-CENSIS (2002), Il valore della Montagna, rapporto di sintesi, Censis Roma.

La filiera corta delle aziende con allevamento

Francesco Ansaloni
Università di Camerino

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Introduzione

Numerose sono le indagini sulla filiera corta che trattano soprattutto del rapporto produttore-consumatore. La letteratura sulle problematiche dei produttori agricoli nel gestire la vendita diretta è invece più scarsa. L’obiettivo di questo lavoro consiste proprio nell’evidenziare i fattori di sviluppo, le difficoltà, le opportunità e i problemi della trasformazione aziendale e della vendita diretta.  Questo studio si basa sui risultati di alcuni casi di allevamenti bovini da carne e suinicoli dell’Appennino maceratese, su indagini svolte in altre regioni italiane e sulla letteratura del settore. Nelle conclusioni è illustrata una proposta di sviluppo di gruppi di aziende per l’attività comune di trasformazione e di vendita presso una bottega localizzata nel mercato urbano più vicino e/o in azienda.

 

Alcuni dati sulla vendita diretta

Le aziende agricole con vendita diretta sono prevalentemente di piccola dimensione. Aguglia (2009) rileva, sulla base dei dati delle aziende della RICA (Rete di Informazione Contabile Agricola) del 2005, che queste aziende, a livello nazionale, si distribuiscono per il 40% nella classe inferiore a 4,8 ettari e per il 35% in quella tra 4,8 e 11,17 ettari. La superficie agricola media delle aziende ammonta a 12 ettari. La classe prevalente a cui appartengono le aziende espressa in UDE (Unità di Dimensioni Economiche) è quella inferiore a 8 (40%), seguita dalla classe tra 8 e 16. Nel 34,3% dei casi si riscontra la presenza di un reddito extra-familiare da pensione.  Le aziende agricole che vendono direttamente sono localizzate per il 65% in collina e per il 23% in montagna. Il 73% dei produttori è costituita da uomini. I produttori che scelgono il canale di vendita diretta sono generalmente più giovani e mostrano una maggiore scolarizzazione (Borri et al., 2009; Martinez et al., 2010).
Per la filiera corta, la scarsa dimensione aziendale può rappresentare un problema. Non sempre, infatti, la quantità offerta di una piccola azienda può risultare sufficiente per garantire l’offerta costante del prodotto. Un’azienda con allevamento di bovini da carne, per esempio, per garantire la vendita di almeno una mezzena per settimana, pari a circa 160-180 kg di carne edibile di differenti tagli, dovrebbe disporre di una mandria superiore a 30 capi totali di bestiame, in grado di produrre per anno circa 26 capi macellati, considerando i maschi e le femmine ingrassate e le vacche a fine carriera.

 

Le tecniche di trasformazione delle aziende

I prodotti venduti dalle aziende possono essere differenziati con l’adozione di tecniche di tipo estensivo. In particolare, ci si riferisce all’agricoltura biologica, alla scelta di varietà locali, ai prodotti DOP e IGP, ecc. In ogni caso, nelle piccole aziende di montagna e collina, è impossibile, o poco conveniente, adottare metodi di produzione intensivi.
La vendita diretta è più diffusa nelle aziende coinvolte anche in altre attività (turismo rurale, servizi per altre aziende agricole) e funziona da catalizzatore per altre attività produttive. Pertanto, l’indirizzo produttivo non è specializzato. Per quanto possibile, il produttore cerca di vendere almeno un prodotto in grado di garantire un incasso rapido e costante di denaro (Ansaloni e Pyszny, 2002).
Nella gran parte dei casi, la scelta dei prodotti da vendere dipende dalla quantità di lavoro necessario per la pulizia, la selezione, la stabilizzazione, il confezionamento del prodotto e per la loro conservazione, il loro trasporto e la promozione pubblicitaria. Inoltre, dipende anche dalla possibilità di garantire la freschezza e dalla stagionalità.
I prodotti che richiedono una modesta attività aziendale sono gli ortaggi e le patate (Borri et al., 2009) (1). Al contrario, i cereali e la frutta necessitano di una media attività aziendale. I prodotti che invece necessitano di una elevata attività sono numerosi.
In particolare, il latte crudo può essere venduto in azienda e attraverso distributori automatici (Bottazzi, 2012). Oggi, in Italia, la vendita del latte crudo ha raggiunto i 1.435 distributori in 92 province (Milk Maps, 2012).
Il latte fresco intero può anche essere pastorizzato e imbottigliato in azienda e distribuito con marchio commerciale attraverso i negozi di città (Le Mucche di Guglielmo, 2012).
La carne fresca, le uova e i latticini sono i prodotti più diffusi e possono essere venduti on line (Bigi, 2005) e, addirittura, consegnati a domicilio, come avviene nel caso della rete di produttori Pro.B.E.R. nella provincia di Bologna. Nelle Marche, un esempio è fornito dalla azienda Arca Felice.
Altri prodotti trasformati sono la bresaola, i salami, le salsicce, gli hamburger, il macinato di carne, il vino, l’olio, i prodotti da forno, i succhi di frutta e le marmellate.

 

Opportunità ed ostacoli della vendita diretta

La vendita diretta è più agevole per le aziende localizzate in zone raggiungibili dai consumatori (aree peri-urbane) e più frequentate, come, per esempio, i siti di forte interesse turistico, storico, archeologico e naturale.
La carenza di investimenti ed infrastrutture per la trasformazione aziendale delle materie prime (celle frigorifere e di stagionatura, locali di lavorazione, ecc.) e per le attività di vendita (veicoli) rappresenta un ostacolo allo sviluppo della vendita diretta. Inoltre, è evidente che le attività di trasformazione non possono essere realizzate se gli ambienti, le strutture e le persone coinvolte non soddisfano i requisiti previsti dalla normativa sanitaria. A volte, poi, il costo di trasformazione delle materie prime e delle operazioni di vendita può risultare elevato, a causa, in particolare, della notevole quantità di lavoro necessario. Tuttavia, soprattutto nelle piccole aziende, caratterizzate da una scarsa dotazione di terra, che non consente di ampliare la mandria o altre attività, e nelle quali la disponibilità di lavoro, relativamente alla quantità degli altri fattori produttivi, è in eccesso rispetto al fabbisogno aziendale, la filiera corta può rappresentare una strategia interessante per sfruttare tutto il lavoro familiare disponibile che, altrimenti, resterebbe inutilizzato (Ansaloni, 2009; Ansaloni et al., 2010).
Inoltre, la trasformazione aziendale e la vendita diretta richiedono specifiche abilità e competenze professionali e, in particolare, una specifica “vocazione” per la vendita.  
La trasformazione aziendale e la vendita diretta non sono semplici integrazioni dell’attività agricola ma rappresentano una nuova attività d’impresa autonoma e indipendente, il cui rischio tecnico ed economico è consistente. Ciò è confermato dalla notevole quantità di lavoro necessaria (Ansaloni, 2009) e dalla necessità per il produttore di rivestire molti ruoli e possedere specifiche competenze tecniche e commerciali.
Il risultato economico dipende dal livello di competenza tecnica di trasformazione e dall’abilità commerciale. I rischi connessi alla vendita dipendono dall’eventuale scarsa quantità di prodotti venduti, a causa, per esempio, della mancata soddisfazione delle caratteristiche qualitative richieste dai consumatori, dall’incapacità di organizzare i trasporti, e dalla competizione di mercato.
La stabilità del flusso delle vendite dipende dalla disponibilità di aree di mercato, attrezzature e regolamentazione. Inoltre, i produttori devono guadagnare la fiducia dei clienti soprattutto grazie al rapporto diretto, al “passa parola” e alla soddisfazione delle loro richieste di qualità (tipicità, chilometro zero), di quantità (in particolare per la clientela della ristorazione locale) e di trasparenza.
Spesso, la regolamentazione della vendita diretta, in termini di quantità di carta, numero di visite presso gli uffici e variabilità dei tipi di accoglienza, può essere notevole. Per questo occorre molta pazienza: “Se non avete pazienza non iniziate neppure!” (Bazzocchi, 2012). Per quanto riguarda il rispetto della normativa sanitaria, lo spaccio aziendale di carne equivale ad una macelleria al dettaglio che vende merce realizzata in azienda. Infine, non possono mancare buone capacità amministrative, soprattutto per la gestione della contabilità aziendale.

 

Conclusioni

Il presente studio, pur non rappresentando l’intera realtà nazionale, offre alcuni risultati che testimoniano la sostenibilità economica della filiera corta. La vendita diretta individuale dei produttori richiede però risorse, tempo, formazione professionale, determinazione e rischio di impresa. Pertanto, la filiera corta non è una soluzione consigliabile a qualsiasi allevatore. Per i piccoli allevatori che non sono in grado di offrire una quantità costante di prodotto e sostenere i costi fissi di trasformazione, una modalità di vendita diretta potrebbe essere quella della costituzione di un gruppo di allevatori (rete). In tal caso, la rete di aziende potrebbe delegare ad un laboratorio extra-aziendale la lavorazione delle mezzene e la preparazione dei prodotti trasformati. Svariati sono i vantaggi di questa strategia. Il laboratorio ha competenze tecniche per svolgere la trasformazione delle mezzene e le dimensioni produttive per ridurre i costi fissi. Inoltre, la carne fresca, potrebbe essere frollata, stoccata, e/o congelata, presso le celle frigorifere in attesa di raggiungere il volume minimo necessario per la vendita e/o per la trasformazione, per esempio, in insaccati e/o salami cotti. Ancora, il laboratorio potrebbe provvedere alla certificazione dell’origine e del metodo di allevamento e trasformazione (tracciabilità). I prodotti che necessitano di stagionatura (insaccati, bresaola, ecc.) potrebbero tornare nelle aziende per la maturazione e, anche, per la vendita. Infine, la vendita della carne fresca e dei prodotti trasformati potrebbe essere realizzata presso un negozio gestito dagli allevatori e localizzato nei pressi di un’area urbana.
Esistono però diverse difficoltà associate all’ipotesi di rete di allevatori-venditori. E’ necessario, per esempio, che gli allevatori superino un comportamento individualistico. Inoltre, occorre un’attività di promozione pubblicitaria presso i consumatori urbani. In parte, un esempio di questo tipo è offerto dagli allevatori biologici di bovini da carne della regione Marche che vendono pacchi di almeno 10 kg di peso contenenti differenti tagli di carne (Ansaloni et al., 2008). Un altro esempio è quello dell’associazione Pro.B.E.R. che nella provincia di Bologna vende carne e riceve le prenotazioni dei clienti sul sito web.

 

Note

(1) Una mappa aggiornata delle vendite dirette di frutta e verdura è offerta dall’associazione “Prodotti sul campo” (http://www.prodottisulcampo.it).

 

Riferimenti

Aguglia L. (2009), “La filiera corta: una opportunità per agricoltori e consumatori”, Agriregionieuropa, n. 17, anno 5, Giugno.
Ansaloni F., Schifani G., Chiorri M., Menghi A., Guccione G., Pyszny F., Galioto F. (2010), Aspetti economici della zootecnia biologica in Risultati del Progetto di ricerca interregionale “EQuiZooBio”, Regione Marche.
Ansaloni F., (2009), "Trasformazione aziendale e filiera corta della carne bovina", agriregionieuropa, ISSN: 1828-5880, Anno 5, Numero 18.
Ansaloni F., Pyszny F., Testa U. (2008), Market Relationship Organic Beef Cattle Breeders in the Region of The Marches (Italy), 16th IFOAM Organic World Congress, Modena, Italy.
Ansaloni F. e Pyszny F. (2002), Sviluppo rurale e produzione di beni tradizionali artigianali: il caso dell’azienda “Maridiana” per la produzione di manufatti tessili, XXXIX Convegno SIDEA.
Bazzocchi C. (2012), Agri.Bio Notizie, filiera corta e vendita diretta in agricoltura biologica, Associazione Onlus dei produttori e consumatori biologici e biodinamici, Cissone (CN).
Bigi M. (2005), Dal produttore al consumatore. La filiera corta, Opportunità per lo sviluppo delle razze italiane da carne.
Borri I., Borsotto P., Corsi A. (2009), La scelta della filiera corta degli agricoltori biologici piemontesi, Agriregionieuropa, anno 5, n.19.
Bottazzi E. (2012), GuidaConsumatore 2012. Agricoltura: la filiera corta, disponibile al link:
http://www.guidaconsumatore.com/alimentazione/agricoltura-filiera-corta.html.
Le Mucche di Gugliemo – Il Latte di Bologna (2012), http://www.lemucchediguglielmo.it/latte.
Milk Maps - Distributori di latte crudo alla spina (2012), www.milkmaps.com.
Martinez S. et al. Local Food Systems: Concepts, Impacts, and Issues, ERR 97, U.S. Department of Agriculture, Economic Research Service, May 2010.

Informazione forestale per incentivare la gestione sostenibile

Carlo Urbinati
Università Politecnica delle Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Introduzione

Nel corso della storia il rapporto fra uomo e foresta è stato ed è tuttora complesso, problematico e a volte paradossale, ma ininterrotto e necessario. Oggi più che mai le foreste sono fondamentali per la conservazione del pianeta e dei suoi abitanti. Esse forniscono habitat all’uomo ed alla fauna, ricchezza biologica, variabilità genetica ed evoluzione, regolazione del clima, materie prime (legnose e non legnose), protezione del suolo e conservazione dell’acqua, valori etici, simboli religiosi, memoria e tradizioni culturali, mito, paesaggio, ma anche lavoro, spazi per l’avventura e il divertimento, occasioni per la creatività artistica.
Oggi la gestione e la conservazione delle foreste, così come la ricerca scientifica, sono una ulteriore manifestazione dell’esigenza dell’uomo di convivere con una risorsa in diminuzione a livello planetario per la quale deve essere garantito il passaggio da una prevalente funzione di produzione di materie prime a quella di fornitura di servizi diversificati (es. protezione idrogeologica, conservazione biologica, mitigazione climatica, ecc.). 

 

Deforestazione e riforestazione, conservazione e gestione

A livello mondiale è opportuno distinguere due situazioni molto diverse: da un lato la deforestazione in atto soprattutto in Africa, nel Sud-Est Asiatico e in America Latina, che è il principale elemento di preoccupazione e la sfida maggiore del nostro tempo; dall’altro il significativo aumento di superficie forestale, soprattutto nei paesi più evoluti, ed in quelli emergenti (Cina), nei quali si tendono ad incentivare forme di gestione forestale sostenibile (GFS) (Figura 1).

Figura 1 - Evoluzione della superficie forestale mondiale per macroregioni nel periodo 1990-2010

 

Fonte: FAO, 2010

La crescente urbanizzazione mondiale ha ridotto i rapporti tra popolazioni e l’ambiente rurale-forestale, favorendo una notevole disinformazione soprattutto in Europa, dove, nonostante il notevole aumento della superficie forestale, i cittadini interpretano come proprio il problema della deforestazione tropicale. Campagne mediatiche poco scrupolose contro la gestione forestale vengono assunte acriticamente dal cittadino medio, lontano da queste realtà. E’ quindi di cruciale importanza, in un mondo globalizzato, comunicare le idee, le innovazioni, i principi gestionali che il settore forestale sta elaborando ed applicando per la conservazione e la gestione sostenibile delle foreste del pianeta (Rojas-Briales, 2011).
Nei decenni pregressi protezione e conservazione estensive sono stati strumenti coercitivi fondamentali per generare una capacità di resilienza in diversi ecosistemi forestali offesi da utilizzi eccessivi e/o irrazionali. Oggi, però, non sono più sufficienti, da soli, a garantire il mantenimento della multifunzionalità richiesta alle foreste e alle risorse territoriali in generale. L’abbandono delle aree collinari e montane e la conseguente perdita delle attività silvo-pastorali, delle tradizioni locali, del presidio e della manutenzione del territorio stanno determinando processi regressivi a livello ambientale e socio-economico aggravati dall’aumento di perturbazioni naturali e antropogeni (cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico, incendi, ecc.) (Romano, 2012).
Per fare un esempio locale, le Marche possiedono sorprendentemente, ma in linea con la media nazionale, una superficie forestale di oltre 3.000 km2 (INFC, 2005), corrispondente al 30% del territorio regionale. Il trend di crescita è stato notevolissimo, in seguito ai processi di riforestazione artificiale e soprattutto naturale dopo l’abbandono di pascoli e coltivi, con un aumento del 300% nell’ultimo secolo e incrementi anche di 7500 ha/anno (Figura 2). Peraltro da uno studio europeo sulla percezione dei cittadini in merito a foreste e selvicoltura emerge che in Italia il 62% degli intervistati ritiene che le foreste nazionali siano in diminuzione, circa il 30% non ha un opinione mentre solo il 9% è consapevole che la superficie forestale è in aumento. L’opinione pubblica italiana considera come criticità primarie dei nostri boschi la conservazione e la protezione, gli incendi forestali, le malattie e i cambiamenti climatici (Rametsteiner et al., 2009). E’ evidente l’effetto di una informazione parziale e inadeguata al contesto del nuovo millennio.

Figura 2 - Riforestazione spontanea in ex-coltivi intorno a Pretare e Piedilama (AP) nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini

 

Fonte: Urbinati C., 2008

I media in questi mesi ci hanno mostrato immagini devastanti di incendi a boschi e terreni incolti, ma non spiegano che oltre alla siccità e alla devianza del comportamento umano, il problema fondamentale è l’abbandono gestionale e la conseguente abbondanza di combustibile costituito da rami e piante secche in piedi o a terra. Analogamente le immagini dello scorso autunno di frane e inondazioni devastanti raramente sono state spiegate in relazione ad una delle loro cause primarie: l’abbandono della manutenzione dei boschi ripariali lungo i corsi d’acqua e l’assenza di una gestione specifica nei boschi montani dell’intero bacino idrografico (Figura 3).

Figura 3 - Necromassa legnosa trasportata a valle nell’alluvione in Liguria del 2011   

Fonte: www.rsvn.it/alluvione-13-milioni-alla-liguria.lits4c14558.htm

E’ diffusa nell’opinione pubblica l’idea che le “utilizzazioni forestali” (ovvero i tagli colturali o di rinnovazione) diano luogo alla “deforestazione” e quindi sono frequenti le richieste di ridurre e/o arrestare i tagli boschivi ed aumentare la quota di aree protette, sebbene nelle Marche solo il 25% della superficie forestale sia soggetto a qualche forma di utilizzazione. Peraltro la libera evoluzione dei boschi non garantisce le diverse funzioni che ad essi richiediamo: per esempio l’Italia importa oltre il 90% del fabbisogno interno di legno e derivati, che in parte provengono anche da mercati illegali, con gravi effetti sociali e ambientali nei paesi di origine e sull’intero pianeta (Urbinati, 2009).
Principi e criteri di gestione forestale sostenibile sono ben noti ai tecnici del settore poiché ampiamente condivisi in Europa e contenuti in gran parte nei documenti programmatici (Forest Action Plan, Piano Quadro del Settore Forestale Nazionale, Piano Forestale Regionale). Ciò che manca spesso sono: a) l’implementazione nella pratica colturale che richiede anche la revisione dei regolamenti regionali (nelle Marche sono le Prescrizioni di Massima e di Polizia Forestale), b) il supporto dell’opinione pubblica, sempre più lontana da ciò che accade nelle foreste e nelle aree montane in generale.

 

Informazione e divulgazione forestale

Nel nostro paese esiste un problema di informazione e di divulgazione forestale, che però non è solo italiano. Ne è una riprova l’interessante iniziativa “Azione Legno” dell’Ufficio Federale dell’Ambiente svizzero (UFAM) che ha lanciato una campagna per valorizzare il legno nazionale e far comprendere all’opinione pubblica che la gestione sostenibile delle risorse forestali è un valore aggiunto per l’economia, l’ambiente ed il welfare del paese (www.stolzaufschweizerholz.ch) (Figura 4). Una della pagine iniziali del sito riporta che il legno è una materia prima indigena e che in Svizzera il patrimonio forestale è gestito oculatamente: si abbattono gli alberi maturi per fare spazio ai popolamenti giovani. Non viene prelevato più legname di quanto ne ricresce e tutte le operazioni boschive sono eseguite nel pieno rispetto della natura, ovvero la gestione del bosco è sostenibile. Particolarmente efficace è il breve filmato. 

Figura 4 –  Pagina iniziale del portale in tre lingue “Fieri del legno svizzero” nel sito dell’Ufficio Federale dell’Ambiente svizzero

Fonte: www.stolzaufschweizerholz.ch

Con un intento simile, ma meno efficace, ISPRA (Istituto Superiore della Protezione e della Ricerca Ambientale) ha recentemente prodotto un video-documentario dal titolo “Foreste d’Italia”, che descrive la diversità compositiva e strutturale delle foreste italiane e la necessità di valorizzarne maggiormente la multifunzionalità incentivando la capacità di fornire, non solo una sostenibile quota di prodotti legnosi e non legnosi, ma anche servizi ecosistemici diversi (fissazione del carbonio, mitigazione climatica, regolazione del ciclo dell’acqua, paesaggio e ricreazione, ecc.) (Ciccarese, 2012).
Altri esempi di comunicazione online su legno e foreste sono il sito “Legno Trentino” (www.legnotrentino.it) e Foresteinforma (www.foresteinfroma.it), una sorta di acronimo di Foreste e INformazioni FORestali delle MArche, costruito intorno a due concetti fondamentali: 1) un’informazione ampia sulle problematiche del settore forestale regionale (e nazionale),  2) la buona “salute” delle risorse forestali delle Marche (Figura 5).

Figura 5 –  Pagina iniziale del portale Foresteinforma, sito per l’informazione e la divulgazione delle problematiche forestali nelle Marche

 

Fonte: www.foresteinforma.it

Nel 2011 inoltre l’ONU ha indetto le celebrazioni per l’Anno internazionale delle Foreste, al fine di accrescere la consapevolezza e sostenere l’impegno alla gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, a beneficio delle attuali e future generazioni. Anche la Regione Marche ha contribuito ad un’informazione più ampia sulla gestione sostenibile con la collaborazione del Tavolo Regionale per le Foreste, costituito da rappresentanti del Servizio Forestazione e del  Servizio Territorio, Ambiente ed Energia, dell’Università Politecnica delle Marche, dell’Assemblea legislativa delle Marche, dell’ASSAM, del Consorzio Marche Verdi, del Corpo Forestale dello Stato, di Federforeste, della Federazione Regionale degli Ordini dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali, dell’UNCEM e dell’UPI.
Sono stati organizzati incontri scientifico-divulgativi con l’obiettivo di comunicare al pubblico più lontano e/o distratto dai problemi ambientali, ciò che si muove nella regione Marche per la gestione sostenibile delle risorse forestali. Inoltre è stato bandito ed espletato un concorso a tema per i tre ordini della scuola primaria e secondaria che ha riscontrato una numerosissima e motivata partecipazione di studenti e insegnanti. Documenti ed elaborati delle iniziative sono consultabili sul sito della Regione Marche (www.agri.marche.it).

 

Conclusioni

L’evoluzione naturale dei boschi è una delle opzioni gestionali, ma spesso inadeguata in territori dove la gestione forestale è proceduta per secoli o addirittura millenni. E’ invece opportuno intervenire con un approccio integrato, adattativo e partecipato al fine di valorizzare maggiormente le foreste e la montagna appenninica e garantire non solo un habitat per le comunità vegetali ed animali, ma anche per le popolazioni locali, il loro lavoro, e la conservazione delle loro ricche tradizioni e consuetudini e degli equilibri territoriali.
E’ necessaria una svolta significativa generata da uno sforzo comune di amministratori, tecnici, proprietari boschivi, operatori e cittadini per comprendere le possibili opportunità offerte dalla nuova PAC, dove le foreste sembrano avere un ruolo trasversale nelle sei priorità definite. Non si dimentichi anche il contesto di variabilità climatica che sta caratterizzando gli ultimi decenni e che impone di adeguare e rendere più flessibili gli strumenti gestionali. Anche le Marche hanno molta strada da fare in tal senso, ad iniziare dalla calibrazione dei propri strumenti normativi e di programmazione a criteri ed indicatori di sostenibilità. E’ il momento, dopo i tanti annunci, di mettere in atto veramente la GFS per fare dei nostri boschi delle “foreste in forma”, ovvero dei sistemi complessi in buona salute, meno vulnerabili ai disturbi e capaci di fornire prodotti e servizi necessari alla sopravvivenza ed al benessere di tutti (Urbinati, 2009). Le sfide del nuovo millennio sono iniziate. Sta a tutti noi vincerle.

 

Riferimenti

Ciccarese L. (2012), “La comunicazione sulle foreste e la percezione dei cittadini”, RRN Magazine, Foreste e Sviluppo Rurale, pp. 6-9.
Rametsteiner  E.,  Eichler L., Berg J. (2009), “Shaping forest communication in the European Union: public perceptions of forests and forestry, Final Report AGRI-2008-EVAL-10, European Commission – DG Agriculture and Rural Development.
Rojas-Briales E. (2011), “Sfide e opportunità a scala mondiale per le foreste nell’Anno Internazionale delle Foreste 2011”, L’Italia Forestale e Montana, 66 (2), pp. 109-117.
Romano R. (2012), Le foreste da risorsa economica a risorsa ambientale e sociale, RRN Magazine, Foreste e Sviluppo Rurale, pp. 30-31.
Urbinati C. (2009), Foreste in forma. La gestione sostenibile nei boschi delle Marche, Regione Marche.

Terra per cosa? Un ambiguo dilemma mediterraneo

Ernesto Marcheggiani, Andrea Galli, Giovanna Paci
Università Politecnica delle Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Il fotovoltaico su suolo agricolo: dimensione numerica e spaziale

Nel corso degli ultimi cinque anni in Italia vaste superfici di terreno agricolo, prevalentemente coltivato a seminativi, sono state coperte da pannelli solari. Nella regione Marche questo mutamento si è verificato con un ritmo esponenziale in termini di superfici occupate (Figura 1). Ad oggi risultano poco più di 15 mila concessioni per un totale di circa 893 mila kW di potenza (Atlasole, 2012). Il grado di diffusione territoriale non è noto, ma dai primi risultati di una indagine sperimentale condotta dal gruppo di ricerca che ha coperto finora il 70% della superficie regionale, emerge come oltre 800 ettari di suolo agricolo siano stati interessati dal fenomeno: una media di 12 campi da calcio ogni mese ininterrottamente per 5 anni. L’incremento è stato così rapido da indurre le amministrazioni competenti a rendere meno agevole, fino ad azzerare,  la concessione di nuove autorizzazioni come si evince dal Decreto Monti sulle Liberalizzazioni (art. 65) e dalla LR 12 del 4-8-2010 Regione Marche.

 Figura 1 – Numero di concessioni per impianti fotovoltaici nelle provincie della Regione Marche, 2006-2011

 

Nota: il trend di crescita segue un andamento esponenziale (curva tratteggiata). Si appiattirà poi dal gennaio 2012 data in cui il Decreto Monti sulle Liberalizzazioni (art.65) e la Legge Regionale 12 iniziano a fare sentire i loro effetti.

Questo crescente interesse da parte degli agricoltori per le energie rinnovabili, in particolare per il solare fotovoltaico potrebbe, a un primo sguardo essere interpretato come un impulso di ammodernamento tecnologico delle dotazioni aziendali, nel tentativo di riposizionare le attività economiche aziendali nel settore delle innovazioni tecnologiche applicabili al contesto rurale. Se vogliamo, la riallocazione spaziale delle risorse sfruttando le novità tecnologiche e la creatività dell’imprenditore agricolo, ovvero quello che van der Ploeg et al. (2002) inquadrano come il rapporto tra gli effetti di specializzazione (deepening), ampliamento (broadening) e riallocazione e ricerca di nuove nicchie di attività (regrounding) dell’azienda agricola al di là delle attività tradizionali.
Tuttavia, ad una analisi più approfondita emerge una duplice situazione. In alcuni casi, gli imprenditori agricoli hanno agito in maniera coerente con gli strumenti di programmazione agricola (per esempio la misura 311 del PSR Marche 2007-2013 sulla diversificazione in attività non agricole) svolgendo il ruolo di propulsori principali. Per questi, le agevolazioni fiscali vengono integrate nell’attività agricola producendo un reddito extra oltre alla stessa energia prodotta da fonte rinnovabile. Altri sfruttano invece la situazione al limite della frode. Aziende che non operano nel settore agricolo, guidano direttamente il mercato dell’energia solare e vanno alla costante ricerca di terreni agricoli da prendere in affitto. Si tratta di società meramente speculative, i cui guadagni dipendono dagli incentivi economici statali.

 

Questioni aperte

Per meglio inquadrare il fenomeno del fotovoltaico su suolo agricolo (Figura 2), al di là della dimensione numerica del fenomeno, si affrontano di seguito tre principali questioni aperte tentando di fornire alcune prime risposte: esiste coerenza tra scopo e risultato? E con le normative vigenti? Infine, quali sono le opportunità e le sfide della pianificazione delle aree non urbane? 

Figura 2 – La dimensione spaziale del fenomeno

 

Nota: in rosso sono mappati tutti gli impianti a fotovoltaico solare installati su suolo agricolo. Il rilievo è riferito alla fine dell’anno 2011.

Quale coerenza tra scopo e risultato? Le spinte che tendono ad allargare l’implementazione delle energie rinnovabili si basano su buone intenzioni di sperimentazione di forme di sviluppo sostenibile e mirano al raggiungimento degli obiettivi europei. In tale contesto l’energia solare può certamente essere inclusa a pieno diritto tra le green-solutions e tutti ne riconosciamo la grande potenzialità e positività. Tuttavia l’effetto dovuto alla localizzazione degli impianti nel territorio non può in nessun modo essere sottovalutato o frainteso. Al contempo, anche gli elementi principali di questo processo incessante devono essere soggetti ad approfondite valutazioni da parte degli esperti di pianificazione e di settore. Se questo è particolarmente vero per gli impianti che sfruttano l’effetto fotovoltaico, i quali necessitano di ampie coperture poste in essere per catturare la radiazione solare, diviene essenziale quando i pannelli non occupano le sommità degli edifici o superfici artificiali (es. parcheggi o capannoni industriali), bensì sono installati su vaste porzioni di suolo agricolo. Tutto ciò apre a potenziali impatti negativi sia sul suolo sia sui comportamenti degli agricoltori, sottraendo il carattere di positività della sorgente rinnovabile e rischiando di produrre una situazione ingestibile.

Quale coerenza con le normative vigenti? Finora i decisori politici e i pianificatori si sono basati su di una visone che considera tre tipologie spaziali classiche: spazi di conservazione della naturalità, spazi rurali di produzione agricola e spazi urbanizzati. Queste tre categorie sono state viste come strettamente separate dove lo zoning è risultato, di fatto, l’unico strumento di pianificazione reale. Con l’aumento della coscienza sociale verso i temi ecologico-ambientali e culturali, la pianificazione degli spazi aperti in ambiente rurale è stata sollecitata ad allargare il proprio orizzonte prospettico. Sotto la spinta fortemente attrattiva della centralità urbana, l’attenzione si è concentrata sul tema del peri-urbano dando origine ad un paradosso: le aree agricole sono in realtà sempre state trascurate nel dibattito urbanistico, cosi come lo sono state le loro reali caratteristiche e dinamiche che ne regolano il funzionamento. Il termine “ruralità”, il cui reale significato è ignoto ai più che ne abusano nella comunicazione mediatica e politica, è divenuto l’alibi dietro al quale si è nascosto il totale disinteresse dei pianificatori, del mercato e, in ultima sintesi, della politica verso questi territori. Nonostante l’assenza di qualsiasi modello di analisi e pianificazione rivolto agli ambienti rurali (dal momento che i vari PSR attuati dal 2001 ad oggi hanno sostanzialmente fallito dal punto di vista del governo e della progettazione dei territori rurali), questi ultimi sono stati recentemente esaltati nell’ambito del dibattito urbanistico a luoghi in cui promuovere funzioni di conservazione (biodiversità, memoria, estetica, ecc.) e mitigazione dell’impatto urbano. In tale contesto di subordine, le politiche di sviluppo rurale hanno tutte centrato la loro essenza sul concetto che gli spazi rurali e i luoghi dediti alla produzione agricola siano una risorsa ancillare, subordinata e funzionale alla città, la cui valorizzazione pare dipendere esclusivamente dalla museificazione del passato rurale e dal loro potenziale di produzioni tipiche, locali e di qualità. Spesso attraverso politiche di marketing territoriale completamente avulse dalle reali criticità che investono le aree rurali. E’ come se l’agricoltura fosse solo un bel paesaggio (con una forte componente immaginaria) che non potesse produrre altro che isolate nicchie di eccellenza.
Trascurati e pianificati con modelli non propri presi a prestito dalla storia dell’urbanistica, questi spazi si sono evoluti in maniera del tutto imprevista (Figura 2). Pur tuttavia essi sono per definizione spazi aperti (Gulinck et al., 2010). In tale condizione di paradosso e in  assenza di robusti strumenti pianificatori, la crescente richiesta di aree agricole per impianti fotovoltaici ha prodotto una situazione emblematica dalle duplici potenzialità, sia negative che positive. Da un lato, ha dato vita alla comparsa di nuove funzioni e servizi ad elevata tecnologia che possono rappresentare, in nuce, una potenzialità, per il settore agricolo e per le imprese, di specializzazione, ampliamento e riallocazione delle proprie attività. Dall’altro, non impedisce che la pianificazione territoriale sia assoggettata alle scelte di imprese speculative. Le prime evidenze sperimentali descrivono infatti una situazione in rapida evoluzione, dove nonostante le buone premesse iniziali, una chiara posizione politica è ancora latitante. Si è passati in pochi anni dal far-west normativo al blocco delle concessioni, rendendo difficoltoso il processo pianificatorio dei territori agricoli e delle aree rurali, lasciati così aperti ad avventure speculative.

Quali opportunità e sfide della pianificazione in aree non urbane? L’impiego di  energie da fonti rinnovabili è da incoraggiare, specialmente se rappresenta una nuova possibilità di reddito per gli imprenditori agricoli che si affianchi ed integri le diverse funzioni che l’agricoltura è in grado di svolgere. Perché questo avvenga è necessario che i pianificatori e i decisori percepiscano chiaramente i cambiamenti verso i nuovi scenari di utilizzo del suolo, adottando politiche ad hoc
Per spiegare questo concetto si ricorre allo schema riportato nella Figura 3. Come detto sopra, si può osservare che nella gran parte del territorio regionale co-esistono in forma ibrida non separata tre categorie spaziali classiche. La realtà, infatti, non è stazionaria e le spinte alla trasformazione generano nuovi assetti territoriali. I pianificatori guidano la realtà attraverso la lente della politica, non consentendo loro di affrontare i nuovi assetti emergenti a livello territoriale a causa degli effetti di scala. La visione idealizzata e le aspettative che essi hanno (Figura 3, in alto a sinistra) si discostano dalla realtà territoriale (Figura 3, in alto a destra), dove nuove funzioni generano nuove strutture che si diffondono su tutto il territorio. I nuovi scenari producono cambiamenti sia sull’assetto territoriale sia sul sistema dei valori culturali delle popolazioni che vivono sul territorio, con modalità e tempi che sfuggono tra le maglie delle normative e delle regole della pianificazione.
La responsabilità dell’aggiornamento del quadro normativo e pianificatorio ricade in parte sugli operatori e sugli studiosi di tali fenomeni, ma principalmente sulla politica.
Prendendo come modello il triangolo della diversificazione proposto da Van der Ploeg et al., si può affermare che l’attuale visione museificata degli spazi rurali, intese come aree di esclusiva qualità, al servizio del benessere di chi abita le aree urbane, si è dimostrata incapace di offrire un’intera gamma di possibilità per gli agricoltori di allargare le loro entrate attraverso le opportunità che derivano dalle novità tecnologiche, come la riconversione del suolo produttivo destinato ad ospitare impianti di energia rinnovabile (Figura 3, triangolo in basso a sinistra). D’altro canto, un uso improprio della risorsa suolo, in assenza di regole e politiche, ha prodotto una sospensione delle attività agricole e un riorientamento verso posizioni passive in cui il guadagno non deriva dalla produzione di beni o servizi, bensì dall’affitto di parte della terra a imprese esterne per la produzione di energia solare da fotovoltaico (Figura 3, triangolo in basso a destra). In questo caso il triangolo della diversificazione perde di significato, perdendo la maggior parte delle funzioni agricole.

Figura 3 -Il paradosso della contrapposizione tra la visione politica degli spazi rurali e la realtà dei paesaggi ordinari e della vita quotidiana

 

Prime sintesi conclusive

La possibilità che la riconversione produttiva verso il fotovoltaico produca effetti integrati con il contesto produttivo agricolo e con il paesaggio rurale dipende dal modo in cui i decisori politici saranno abili nel catturare e interpretare le sfumature del rapido processo di trasformazione spaziale del territorio agricolo, e dallo sviluppo di un nuovo approccio da parte dell’imprenditore agricolo verso le risorse aziendali. Solo una buona governance potrà indirizzare le attività speculative extra-agricole verso un processo di ammodernamento e aumento dei margini di operatività dell’agricoltura, ampliando le possibilità di reddito delle aziende agricole, ovvero, in ultima sintesi, verso nuove forme integrate che amplino il panorama attuale delle attività tradizionali e dei servizi resi dal comparto agricolo.
Se ciò dovesse essere disatteso, l’intero processo innescato dalla spinta verso le rinnovabili non sarà altro, almeno per il solare fotovoltaico in aree rurali, che una forma di sfruttamento delle risorse agricole, in particolare della preziosissima risorsa suolo. Questo meccanismo di speculazione non potrà che indirizzare il settore agricolo verso scenari che difficilmente potremmo inquadrare come sostenibili o di allineamento agli obiettivi europei della sfida 2020.
Solamente con una solida strategia partecipata capace di far incontrare la visione ideale e le aspettative della parte politica (es. i distretti rurali di qualità) con le nuove forme di uso degli spazi aperti in ambiente rurale (es. pannelli solari) integrandole con le attività agricole, sarà possibile guidare i processi di trasformazione verso un nuovo modo di progettare il territorio agricole e le aree rurali. Una progettazione che sia condivisa, sostenibile e rispondente le istanze delle popolazioni locali.
Esistono attualmente esempi di uso razionale e positivo del solare fotovoltaico integrato con le attività dell’agricoltura. Ma sono singoli casi isolati. Il successo di questa integrazione virtuosa dipende più dall’attivismo locale e dalla creatività dei singoli imprenditori che dall’azione politica. Quest’ultima, troppo lenta nel rispondere alle nuove dinamiche di trasformazione, miope e centrata su una visione degli spazi agricoli e rurali al servizio delle funzioni urbane, ancora una volta, va ribadito, rischia di fallire l’opportunità di cogliere l’opportunità di guidare il cambiamento.

 

Riferimenti

Atlasole - Gestore dei Servizi Energetici GSE, Dati aggiornati al 2012 disponibili al seguente link: http://atlasole.gse.it/atlasole
van der Ploeg J. D., Long A., Banks J. (2002), Living Countrysides: Rural Development Processes in Europe - The State of the Art, Elsevier, Doetinchem.      
Bomans K., Steenberghen., Dewaelheyns., Leinfelder H., Gulinck H. (2010),  “Underrated transformations in the open space. The case of an urbanized and multifunctional area”, Landscape and Urban Planning, vol. 94, issues 3–4, pp. 196–205

Foresta e monaci camaldolesi

Un rapporto millenario tra gestione e conservazione


Carlo Urbinati1, Alma Piermattei1, Raoul Romano2
1 Università Politecnica delle Marche, 2 Istituto Nazionale di Economia Agraria

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Introduzione

Mille anni fa, nel 1012, intorno ad  piccolo nucleo di monaci insediatisi silenziosamente in uno splendido angolo del Casentino, scelto da San Romualdo, monaco ravvenate dell’Ordine Benedettino, nacque il Sacro Eremo di Camaldoli, attorno al quale si costruì la millenaria storia delle omonime foreste e dei loro infaticabili proprietari e gestori, raccolta nel volume “Foresta e monaci camaldolesi. Un rapporto millenario tra gestione e conservazione” (Urbinati e Romano, 2012). Esso rappresenta un ulteriore capitolo del progetto di ricerca dal titolo “Codice Forestale Camaldolese: La ricerca delle radici della sostenibilità”, finanziato dal MIPAAF e successivamente dalla Regione Marche (mediante una convenzione fra  INEA, Istituto Nazionale di Economia Agraria e Collegium Scriptorium Fontis Avellanae) con l’obiettivo di recuperare, valorizzare e diffondere il patrimonio storico-culturale della millenaria gestione agro-silvo-pastorale del territorio montano operata dalla Congregazione Benedettina Camaldolese.  Una grande quantità di documenti presenti presso l’Archivio di Stato di Firenze e gli Archivi dell’Eremo e del Monastero di Camaldoli sono stati riprodotti in formato digitale ed ora sono riuniti e disponibili per consultazione e ulteriori ricerche nel sito specifico dell’INEA, www.codiceforestale.it. Specifiche convenzioni con il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Politecnica delle Marche hanno consentito la ricostruzione e l’analisi di criteri e tecniche di gestione forestale dei Camaldolesi, raccolte in due volumi (Romano, 2010; Urbinati e Romano, 2012).

 

Il sistema Camaldoli: eremo, cenobio e foreste

Anche in Casentino, come in altre realtà dell’Appennino e della montagna italiana, la foresta costituisce la matrice entro cui si è sviluppata la storia del paesaggio, della cultura e delle tradizioni locali. Un sistema in cui monaci, contadini, pastori, artigiani e boscaioli, si sono quotidianamente rapportati con la natura definendone i contorni, la struttura e le caratteristiche che ancora oggi conosciamo, ammiriamo e tuteliamo. Ma Camaldoli è un esempio unico, perché la gestione sostenibile del bosco e dell’ambiente, a differenza di altri casi, è entrata come parte essenziale, non solo nelle disposizioni, ma anche nelle costituzioni della Congregazione, divenendo parte ineludibile dei doveri dei monaci. 
Salvatore Frigerio, monaco camaldolese presso l’Eremo di Montegiove (PU) e uno dei principali artefici del progetto Codice Forestale Camaldolese, così ha definito Camaldoli: "… un mondo che non è solo una riserva di alberi e di animali, ma che, proprio perché è un mondo, è un risultato di vite, di storie, di processi, di testimonianze, di ricerche, di fatiche, di lotte e di successi, di sconfitte e di vittorie, di solitudini e di incontri non riducibili a un mero problema tecnico ed economico”.
Negli otto secoli e mezzo di proprietà e gestione diretta il sistema Camaldoli (costituito dal Sacro Eremo e dal Cenobio di Fontebuono più a valle), quasi come un  piccolo “stato”,  ha dovuto affrontare enormi mutamenti socio-economici e condividere le risorse territoriali con vicini molto più potenti e meno attenti al loro uso sostenibile, riuscendo nell’impresa di preservare nel tempo la valenza forestale dell’area (Figura 1).

Figura 1 –  Veduta di Eremo (in alto) e Cenobio di Camaldoli (in basso) immersi nelle foreste del Casentino

 

Fonte: Francesco Fontani, Viaggio Pittorico in Toscana, 1801-1803

Sono riconoscibili tre fasi principali nella storia di Camaldoli:

  • l’insediamento ed il consolidamento (X-XIV secolo),  durante il quale l’utilizzo delle risorse forestali fu prevalentemente orientato all’autoconsumo;
  • la consapevolezza della valenza economica dell’abete bianco (XV-XVIII) che determinò un notevole incremento della sua produzione e il passaggio ad un carattere industriale della filiera foresta-legno;
  • la crisi (XIX secolo) e la successiva perdita della proprietà (1866), preliminari ai maggiori danni inflitti alle foreste, avvenuti nella prima metà del ‘900 durante l’amministrazione statale.

Nel tempo gli obiettivi di breve-medio termine e le modalità di gestione sono stati talvolta modificati, determinando cambiamenti anche  nella struttura e nella composizione delle foreste, ma non sono cambiati quelli di lungo termine. Non è mai venuta a mancare la visione olistica del progetto, ovvero il rapporto di stretta comunione fra la natura e l'uomo, attuato per mezzo dell'uomo, quale elemento dell’ecosistema. E’ questo che contraddistingue l’approccio camaldolese alle foreste, fra i tanti esempi di gestione, grandi e piccoli, ecclesiastici e laici, di cui la storia del nostro paese è ricca.

 

La gestione forestale sostenibile a Camaldoli

Il Codice Forestale Camaldolese non è una tediosa raccolta di norme e regolamenti e neppure un documento unico e organico, ma potremmo definirlo un prodotto “multimediale”,  basato sulla Regola della Vita Eremitica scritta dal Paolo Giustiniani nel 1520 (una sintesi delle consuetudini di vita monacale e di gestione della foresta tramandate nei primi 500 anni ed insieme punto di partenza dei successivi 400 anni) integrato dai numerosissimi documenti “sparsi” (I libri della Foresta, gli Atti Capitolari, ecc.) e dalla trasmissione orale delle conoscenze e delle tecniche colturali (Figura 2).

Figura 2 –  Nota di spedizione del 23 Aprile 1830

La nota riporta elenco e caratteri dimensionali dei singoli capi di legname d’abete bianco venduti dai Camaldolesi e  destinati a Firenze tramite fluitazione lungo l’Arno dal porto di Poppi. I foderatori erano i traghettatori che conducevano le zattere di tronchi (foderi) allestite con il legname venduto.
Fonte: I Libri della Foresta, Archivio di Stato di Firenze

I risultati del progetto hanno consentito di caratterizzare le peculiarità del sistema Camaldoli, rispetto ad altre realtà analoghe  quali l’Eremo di Vallombrosa, il Santuario della Verna o altre che hanno gestito per lungo tempo ampi territori forestali del Casentino, come l’Opera del Duomo di Firenze. Fra le tante possiamo ricordare:

  • La gestione del bosco e dell’ambiente naturale nel dettato biblico del “custodire e coltivare”, è parte essenziale delle disposizioni e delle costituzioni della Congregazione, divenendo parte ineludibile dei doveri del monaco e costituendo un continuo riferimento nel lungo termine;
  • l’isolamento dell’Eremo non era fisiografico, ma ha richiesto una continua e oculata gestione della foresta e dei suoi confini. Non si dimentichi che sul vicino crinale appenninico vi erano valichi di importanti vie di comunicazione fra nord e sud d’Italia e d’Europa;
  • Camaldoli fu una sorta di “staterello” (non più di 1.700 ha) incastonato fra le proprietà di potenti signorie e stati dal X al XIX secolo e dovette con intelligenza salvaguardare integrità fondiaria e politica di gestione delle proprie risorse, di cui la foresta rappresentava il principale investimento e rendita;
  • Camaldoli divenne un centro di riferimento importante, culturale e socio-economico per molte popolazioni del Casentino che, aumentate grazie a specifiche politiche di attrazione da parte dell’Opera del Duomo, riconoscevano la maggiore funzionalità (sia economica che ambientale) del sistema camaldolese. Tale concentrazione demografica, costituì anche un fattore di pressione e perturbazione alle cenosi forestali camaldolesi soprattutto nelle aree di margine;
  • la gerarchia della struttura amministrativa camaldolese, il verticismo decisionale nella selvicoltura applicata e la dettagliata registrazione delle operazioni garantirono una gestione duratura e sostenibile delle foreste;
  • la gestione forestale in generale e i trattamenti selvicolturali in particolare,  cambiarono nel tempo in relazione alle diverse esigenze dei monaci e alle funzioni assegnate alle foreste dal mercato e dalle necessità delle popolazioni locali. A Camaldoli dopo i primi secoli di taglio a scelta, si iniziò a partire dal XVI secolo ad applicare progressivamente trattamenti riconducibili al taglio a raso su piccole superfici con rinnovazione posticipata. Si tenga presente che in Europa il passaggio al taglio raso seguì il processo di industrializzazione e l’affermazione del liberismo economico del XVII e XVIII secolo, sebbene pare che a Vallombrosa fosse da sempre applicato il taglio a raso (Figura 3);
  • le utilizzazioni eccessive dovevano essere sempre compensate da un aumento del contingente di rinnovazione (da semenzali, trapianti o semina) e comunque vi erano divieti di taglio lungo le strade per garantire sempre un paesaggio gradevole a chi percorreva le vie di accesso da e per l’Eremo;
  • le maggiori perturbazioni alla foresta di Camaldoli vennero perpetrate nel periodo compreso fra il 1866 e il secondo dopoguerra, cioè quando i Camaldolesi ne avevano già perso proprietà e gestione.

 

Figura 3 – Fustaia coetanea di abete bianco nei pressi dell’Eremo di Camaldoli

Nota: le foreste attuali sono in gran parte il risultato di interventi selvicolturali avvenuti dopo il passaggio allo stato delle proprietà camaldolesi
Fonte:  Urbinati C., giugno 2012.

Naturalmente la gestione forestale applicata non fu sempre esemplare. Infatti dai documenti emergono alcune difficoltà incontrate dai monaci, sebbene non esplicitamente dichiarate. Sono frequenti sia i richiami a una maggiore attenzione nel taglio degli abeti, nel controllo del bestiame in bosco, nell’esecuzione delle ripuliture e della messa a coltura prima della rinnovazione (ronchi), sia specifici divieti affinché la foresta “non scemasse”. Il rischio di cadere nella trappola dell’interesse personale era elevato in un contesto in cui interagivano eremiti, cenobiti, signori, legnaioli, pastori e contadini, in grado di minare l’integrità della foresta. Non si dimentichi infatti la concorrenza dell’Opera del Duomo, foriera di una politica, molto appetibile, ispirata alla massimizzazione del profitto.

 

Conclusioni

Con il decreto Sabaudo di abolizione degli ordini religiosi del 1866, le foreste di Camaldoli diventarono demanio del Regno d’Italia e furono dapprima consegnate al Ministero delle Finanze e poi al Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Nel 1974 con il trasferimento delle competenze agro-forestali alle Regioni, 698 ettari della foresta transitarono alla Regione Toscana, che nel 1976 ne affidò la gestione alla Comunità montana del Casentino, mentre 1.076 ettari rimasero allo Stato nell’amministrazione ASFD di Pratovecchio e poi al Corpo Forestale dello Stato. Con l’istituzione nel 1993, del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona, Campigna, prese forma il desiderio del grande naturalista Pietro Zangheri “affinché i posteri possano arrivare a godere la visione di questi grandi boschi appenninici nel loro aspetto naturale, vergine o quasi”.
Oggi enti diversi (Corpo Forestale dello Stato, Unioni dei Comuni, Ente Parco Nazionale, Regioni Toscana ed Emilia Romagna) rivendicano competenze sulle foreste di Camaldoli, ma obiettivi gestionali e progettualità non sono sempre convergenti. La proposta di restituire ai monaci la gestione delle foreste oggi non è più attuabile, poiché non avendo più le competenze tecniche, dovrebbero affidarsi a enti o società esterne. La gestione attuale delle foreste Casentinesi riguarda poi un’ampia porzione del parco nazionale, ben più estesa dei 1.700 ettari originari di Camaldoli, e deve rapportarsi con un assetto socio-economico e ambientale molto diverso da quello dei secoli pregressi.
I risultati di questa ricerca possono essere utili alla definizione di un sistema di gestione sostenibile delle foreste di Camaldoli, sottolineando la capacità dei monaci di distinguere fra obiettivi di lungo e breve termine che ha garantito al loro sistema gestionale resilienza e durevolezza, nonché, la conservazione della copertura forestale e delle sue molteplici funzioni. Si tratta di un semplice, ma fondamentale insegnamento che dovrebbe essere sempre ricordato nei processi di valorizzazione delle risorse forestali nei territori montani.

 

Riferimenti

Romano R. (a cura) (2010), La Regola della vita eremitica, ovvero le Constitutiones Camaldulenses. Codice Forestale Camaldolese. Le radici della sostenibilità: I volume, INEA, Roma.
Urbinati C. e Romano R. (a cura), (2012), Foresta e Monaci di Camaldoli: un rapporto millenario tra gestione e conservazione, Codice Forestale Camaldolese: III volume, INEA, Roma.

Sviluppo rurale e foreste

Stato e problematiche attuali nelle Marche


Giulio Ciccalè
Regione Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Premessa

Il tema forestale e dello sviluppo rurale risulta ampiamente trattato in altre sedi (Rete Rurale Nazionale, 2012) cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.
In questo articolo, si focalizza l’attenzione sulla situazione delle Marche, che riflette però quella di molte regioni italiane, specialmente quelle appenniniche e insulari, regioni, cioè, accomunate non solo dalla presenza della copertura forestale mediterranea/mediterraneo-montana e da una selvicoltura basata principalmente sull’utilizzo a ceduo del bosco, ma da caratteristiche e situazioni demografiche, culturali, socio-economiche, paesaggistiche e strutturali (es. viabilità forestale e modalità di esbosco) piuttosto simili, pur nelle differenze locali.

 

PSR Marche e foreste: passato e presente

Il primo dato su cui porre l’attenzione è che, a fronte di una capacità di spesa superiore al 100% delle risorse disponibili da piano finanziario del PSR 2000-2006 (le misure forestali hanno “accolto” e sfruttato appieno anche economie registrate dalle misure strutturali agricole), si è ora (fine 2012) in una situazione attuativa che può essere sintetizzata come segue.
In merito alla misura 122 (valorizzazione economica delle foreste), con il bando scaduto nel luglio 2012 si sono rese disponibili tutte le risorse, pari a 1,32 milioni di €. La misura ha finanziato sia interventi di miglioramento forestale sia l’acquisto di attrezzature e macchine forestali. Le domande di aiuto pervenute sono state 9, di importo complessivo pari a 241 mila €. Il residuo da bando è pertanto di 1,079 milioni di €. Purtroppo  tutte le domande sono risultate irricevibili per carenze non integrabili. Sebbene l’interesse sia stato piuttosto limitato, è probabile che il bando venga riproposto nell’immediato.
Riguardo alla misura 123b (aumento valore aggiunto prodotti forestali), a breve sarà emanato il bando con le risorse da poco resesi disponibili, pari a 500 mila €. E’ previsto un certo interesse da parte delle Cooperative forestali del territorio regionale.
In relazione alla misura 224 (indennità Natura 2000 forestali) sono stati emanati due bandi per l’annata silvana 2010/11 di importo complessivo di 1,3 milioni di €, uno per i cedui a regime, l’altro per i castagneti da frutto. Nessuna domanda di aiuto è stata presentata dai beneficiari e nessun altro bando sarà riproposto.
La misura 225 (pagamenti silvoambientali) non è stata attivata nel PSR Marche per evidenti problematiche realizzative, riscontrate anche da Regioni nel cui PSR era presente la specifica scheda di misura.
La misura 226 prevede in particolare le seguenti azioni: (a) interventi di prevenzione degli incendi boschivi – Comunità montane; (d) attrezzature informatiche, visive e radio per la lotta agli incendi boschivi – Protezione civile regionale. Riguardo all’azione (a), di interesse prettamente forestale, sono stati emanati 3 bandi, di cui i primi due 2 si sono chiusi con domande istruite. Rispetto al passato si evidenzia un significativo numero di domande inammissibili ed una evidente lentezza nella progettazione, appalto, spesa e rendicontazione degli interventi da parte di alcuni enti. Sono stati impegnati 7,51 milioni di € e residuano 4,9 milioni di €. Il terzo bando scadrà nell’ottobre 2012.
Relativamente alla misura 227 (investimenti non produttivi forestali), data la “concomitanza” con l’Anno Internazionale delle Foreste 2011, è stata attivata la sola azione (c) (mantenimento od incremento della biodiversità forestale), con l’allocazione di tutte le risorse a disposizione pari a 3,59 milioni di €. La scadenza per la presentazione delle domande è fissata per il 1° ottobre 2012. L’interesse sembra discreto, pur se si è quasi certi che le risorse bandite risulteranno superiori a quelle richieste.
Come noto il settore forestale soffre di problematiche oramai definibili “imperiture” quali la frammentazione della proprietà, la scarsa propensione all’aggregazione, alla pianificazione, alla gestione attiva e, ancor di più, all’investimento nei propri boschi, la tendenza alla spopolamento e l’alto tasso di invecchiamento della popolazione attiva residente e la scarsa raggiungibilità dei beneficiari dovuta alla quasi inesistente rappresentatività in seno ai tavoli di concertazione dei proprietari forestali privati.
A queste si ritiene che se ne siano aggiunte di ulteriori, riguardanti le singole misure e sorte in parte durante la concertazione con la rappresentanza della Commissione europea sul testo delle singole schede di misura.
Nell’ambito della misura 122, il tasso di tasso di aiuto è sceso dal 100% al 50-60 % (40% per attrezzature e mezzi). Altre questioni concernono la detrazione del valore del legname, per cui il tasso di aiuto si riduce ulteriormente, e l’IVA non ammissibile per i beneficiari pubblici.
Con riguardo alla misura 123b, il  tasso di aiuto è rimasto al 40%, un valore ritenuto basso dagli operatori del settore forestale dal momento che realizzano bassi guadagni a fronte di un notevole impegno di mezzi, carburanti e lavoro. Le spese per attrezzatture e mezzi, escludendo quelli dedicati al taglio, allestimento ed esbosco non sono ritenute ammissibili. Precedentemente,  lo erano anche i mezzi a trazione integrale per il trasporto del personale e/o promiscui ed i mezzi per l’esecuzione di interventi di ingegneria naturalistica. Vi è inoltre una generale crisi di liquidità e una grave difficoltà di accesso al credito da parte degli operatori forestali uniti in forma cooperativa, determinata anche dall’inattesa lentezza dell’esecuzione degli interventi preventivi di cui alla misura 226 e dalla inammissibilità di alcune domande presentate dalle Comunità montane.
In merito alla misura 224, l’indennità è riconosciuta solo per i divieti imposti dalla normativa (DM 17/10/2007) e non anche per le best practices individuate dalla Giunta regionale con propria deliberazione (n. 1471/08). Inoltre, il massimale di aiuto di 200 €/ha, seppure appetibile per le lavorazioni e le superfici agricole, risulta molto basso per l’attuazione, e relativo indennizzo PSR, dei divieti e delle misure di conservazione previste dagli enti gestori per i siti della Rete Natura 2000. In questi siti, infatti, nessuno più chiede di tagliare il bosco per via degli evidenti problemi causati dalla normativa, dai costi burocratici ed economici connessi alla valutazione di incidenza e dagli enti gestori che formulano prescrizioni tali da generare ulteriori problematiche realizzative, ulteriori costi e lunghi tempi di fermo. Sono queste evidenti limitazioni del godimento dei frutti pendenti da parte della proprietà privata che non apportano, tra l’altro, alcun “valore aggiunto” per la tutela dell’ambiente e della biodiversità. A questo si aggiungono  le notevoli difficoltà applicative delle misure a superficie ai boschi, soprattutto se di carattere pluriennale, dato che le utilizzazioni sono legate a singole annate silvane, e  i relativi atti autorizzativi (lo stesso dicasi per la misura 225).
In riferimento alle misure 226a e 227c, va fatto notare un aumento della burocrazia esogena ed endogena per le misure strutturali del PSR aventi come beneficiari gli enti pubblici (es. fascicolo aziendale, utilizzo del particellare catastale e non del particellare forestale del piano di gestione/assestamento forestale). Vi è poi una generale indeterminatezza legata alla fine o alla riorganizzazione delle autonomie locali e di altri enti beneficiari. A queste problematiche si aggiungono un generale appesantimento burocratico delle procedure di appalto pubblico con allungamento dei tempi di progettazione, appalto ed esecuzione lavori e una eccessiva burocratizzazione dovuta alla “moltiplicazione” delle autorizzazioni necessarie per l’esecuzione degli interventi (es. nulla osta Enti Parco, valutazione di incidenza, autorizzazione idrogeologica e paesaggistica provinciale per i ripristini di piste e la sistemazione delle frane). Infine vanno ricordati la detrazione del valore del legname con indeterminatezza circa il rientro del 100% delle spese sostenute e l’IVA non ammissibile per i beneficiari pubblici.
Quelli sopraesposti sono i problemi principali che si riscontrano nel settore forestale e che si affiancano a quelli strutturali e più generali. Accanto ad essi però ne esistono anche di secondari, in questa sede trascurati, ma non per questo meno importanti.  

 

PSR Marche e foreste: alcuni suggerimenti per il futuro

Per il futuro periodo di programmazione, con riferimento in particolare a quanto emerge dall’ultima versione della bozza di Regolamento disponibile, si ritiene che per il settore forestale debbano essere prese in considerazione le seguenti raccomandazioni.

  • Le procedure burocratiche per gli interventi forestali devono essere snellite sia nello sviluppo rurale che nella materia paesaggistica ed ambientale comunitaria e nazionale, come auspicato dalla stessa UE in conseguenza della crisi economica.
  • In sede nazionale va definita dettagliatamente la “rosa” degli interventi/investimenti/pratiche ammissibili ed occorre instaurare un accordo di partenariato, o similare, con la Commissione europea in modo da rendere certo l’andamento e i risultati della concertazione del testo del PSR e delle decisioni dei singoli CdS. Il Mipaaf e le Regioni stanno agendo in questo senso.
  • Il beneficiario deve essere possibilmente unico per tutte le misure che prevedono interventi selvicolturali (migliorativi, preventivi, di tutela ambientale). Deve inoltre essere identificato nel gestore effettivo della foresta o in chi si impegna a gestirla attivamente, indipendentemente dalla personalità e forma giuridica, pubblica, privata o pubblico-privata.
  • Per gli interventi selvicolturali il massimale deve essere pari al 100% delle spese ammissibili e l’IVA non recuperabile va inclusa per gli Enti pubblici.
  • Occorre valutare l’opportunità che le misure forestali “climatico-ambientali” (attuali misure 224 e 225, attuali artt. 26, 31 e 35 della bozza di nuovo regolamento) possano essere scisse dall’attuale equiparazione attuativa e gestionale propria delle misure a superficie agricole, elaborando la forma attuativa e gestionale più efficace e consona alla particolarità delle stesse.
  • Va reintrodotta la possibilità di cofinanziare inventari, cartografie e strumenti di pianificazione forestale di ogni livello e per ogni tipologia di proprietà/possesso/gestione nonché la possibilità di cofinanziare forme di aggregazione tra gli operatori forestali pubblici e/o privati.

 

Conclusioni

Il settore forestale nella nostra regione è un settore che, seppur piccolo, marginale ed un po’ trascurato, all’infuori dalla vincolistica, risulta fondamentale per la gestione del territorio, la difesa del suolo, la tutela dell’ambiente e del paesaggio, la cultura, le tradizioni, le produzioni, la multifunzionalità e i beni e servizi pubblici che rende. Questi prodotti purtroppo non vengono però remunerati adeguatamente a chi gestisce in modo attivo e sostenibile la superficie forestale, la quale occupa, va ricordato, ben il 30% del territorio regionale.
La situazione che il settore forestale attraversa è tuttavia preoccupante come dimostrano le statistiche (dati progetto Util.for, Comando regionale CFS) sulla tagliata media delle Marche (7 mila m2) e sul tasso di utilizzazione dei cedui a regime equivalente all’1% annuo e al 24% sul turno medio di utilizzazione. Ciò significa che il 76% dei cedui è in abbandono colturale decennale. Sulle fustaie addirittura non si interviene, se non in demanio regionale. Nell’ambito delle difficoltà che il settore incontra non vanno sottovalutati la grande anti-modernità, la durezza e la pericolosità del lavoro in bosco, la difficoltà di reperimento di una manodopera forzatamente molto specializzata e il basso valore aggiunto della lenta e ciclica produzione legnosa.
In questo quadro, le normative e i provvedimenti finanziari, ormai solo di derivazione comunitaria, rappresentano una sorta di “Fortezza Bastiani”, con cui è impossibile dialogare, competere e addivenire a benefici. Per questo motivo non si intravedono grandi variazioni sul tema del “trascinamento”, tanto per utilizzare un termine specifico dello sviluppo rurale.
La speranza è che il nuovo periodo di programmazione dello sviluppo rurale, che comunque sembra introdurre alcune positività rispetto al passato oltre che mantenere irrazionali rigidità, dia maggiormente ascolto alla voce silente delle foreste ma anche a chi silenziosamente le ha per anni studiate, chi per le foreste opera, chi nelle e delle foreste mediterranee vive e intende continuare a vivere dignitosamente, con un minimo di razionale sostegno. Che questo perdurante silenzio diventi alfine “assordante” per chi decide.

 

Riferimenti

Rete Rurale Nazionale (2012), “Foreste e Sviluppo rurale”, RRN Magazine, n.3, marzo. Disponibile al seguente link: http://www.reterurale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/7570

La Carta di Fonte Avellana

Strategie di sviluppo sostenibile nei territori montani


Teodoro Bolognini
Legacoop agroalimentare

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Genesi e contenuti

La Carta di Fonte Avellana è stata sottoscritta il 19 maggio 1996. Si tratta di un atto strategico per lo sviluppo dei territori montani, sottoscritto da Regione Marche, Unione delle Province, dei Comuni e Comunità Montane, Centrali Cooperative (Legacoop, Confcooperative, Agci, Unci), Comunità Monastica di Fonte Avellana, consegnato e custodito, insieme all’Orologio dell’Appennino, all’interno del millenario monastero benedettino, alle pendici del Monte Catria.
La Carta nasce da un bisogno, quello di assicurare, da parte di chi ha scelto di rimanere ad operare in montagna, la gestione delle risorse che sono scarse se rimangono frammentate, enormi se viste nella loro dimensione d’assieme. Obiettivo della Carta è quello di favorire questa sinergia promuovendo l’incontro fra coloro che lavorano per perseguirla, perché amministrano, perché operano, perché vivono in montagna. La frammentazione e, a volte la contrapposizione fra i diversi soggetti, ha indebolito nei secoli la montagna, rendendola marginale, in alcuni casi terra di conquista, anche perché scarsamente abitata e lontana dagli interessi della politica. Al contrario, una visione univoca che diventa strategia operativa può trasformare la Montagna “da problema ad opportunità”, come recitava il titolo della due giorni del Forum che partorì quella Carta (1).
Due anni dopo, a seguito di un confronto nel quale la Carta si aprì al Cnel e al resto della rappresentanza sociale attraverso un convegno svoltosi a Camerino (2), ad un primo gruppo,  si sono aggiunti altri firmatari: Cgil, Cisl e Uil, Cia, Coldiretti, Copagri, CNA, Confesercenti Banca delle Marche, Anascom, Consulta dei Parchi. Alcuni importanti istituti di livello nazionale, il Cnel, l’Imont,  l‘Associazione “Alessandro Bartola”, hanno espresso la loro condivisione, offrendo supporto scientifico, assistenza e partecipazione a specifici progetti.
La Carta (3), individuando nei monasteri di Fonte Avellana e Camaldoli i centri propulsori di una nuova idea di Appennino, riconosce anzitutto che “il ruolo della montagna è fondamentale per assicurare la regimazione delle acque e la tutela del territorio, […] che esiste interdipendenza fra montagne e restanti zone,  […] che la diversità culturale e ambientale dell’Appennino […]  è una risorsa, […]  che le attività tipiche della montagna […]  rappresentano un patrimonio professionale autoctono da valorizzare e arricchire,  […]  che esiste una stretta connessione tra tutela, residenza e settore primario”. A partire da queste premesse, i firmatari della Carta si impegnano a: “promuovere la silvicoltura e le attività collegate, […] sostenere l’agricoltura di montagna, […]  in quanto fondamentale per la manutenzione del sistema naturale antropizzato, sostenere le imprese agricolo-forestali con particolare riferimento a quelle cooperative, […] incentivare specie nelle aree a parco, diffuse iniziative di sviluppo sostenibile, […] promuovere un tavolo interdisciplinare (in Regione) per la realizzazione degli interventi pubblici nelle zone montane, […] promuovere il credito, la formazione, l’occupazione valorizzando la cooperazione, […] promuovere un progetto per l’Appennino”.
In altri termini, la Carta fa sua la tesi secondo la quale la gestione coordinata del primario, inteso come territorio, agricoltura, boschi, integrato nella multifunzionalità del turismo naturistico, escursionistico e culturale, produce lavoro, reddito e qualità della vita per i residenti in montagna. La fondatezza di questa tesi, che è in linea con quanto emerge dai Regolamenti comunitari sullo sviluppo rurale, quello in corso (Reg. CE 1698/2005) e quello in costruzione (2014/2020), dal P.Q.S.F. (Programma Quadro per il Settore Forestale, 2008) e dal Piano forestale regionale (2009), è dimostrata dall’esperienza di venti anni di lavoro in bosco da parte delle cooperative forestali.

 

L’esperienza del consorzio Marche Verdi

Un esempio concreto di attuazione dei principi della Carta è fornito dall’esperienza di “Marche Verdi”, il consorzio che aggrega 25 cooperative operanti nelle Marche nei settori forestale e turistico-ambientale. Il consorzio, attraverso un organico di 250 dipendenti fra operai, tecnici, dirigenti, operatori del turismo escursionistico e dell’educazione ambientale, è riuscito, operando in rete fra cooperative, in una regione che non ha dipendenti pubblici diretti, a vedere assicurato un reddito e un’occupazione “continuativa”, operazione di grande significato perché solo la continuità è sinonimo di stabilità, di crescita e di permanenza.
Gli imprenditori cooperativi, equiparati dal Dl n. 227/01 agli imprenditori agricoli, mostrano di essere in grado di assolvere all’importante funzione di “attori” dello sviluppo rurale, soggetti imprescindibili della “multifunzionalità”. Questo perché hanno in sé il connotato della “rete”, con la capacità di rapportarsi in modo univoco alla politica, alle istituzioni, lavorano al servizio degli enti per la prevenzione, la lotta agli incendi boschivi o nel pronto intervento in caso di calamità o per la diversificazione delle attività, spingono per la formazione, la qualificazione tecnica, progettuale, professionale degli operatori che, peraltro, esprimono un’età compresa tra 35 e 40 anni e, contemporaneamente, sono presenti in modo capillare su tutto il territorio montano.
Peraltro oggi si avverte che ci sono le condizioni per un ulteriore rafforzamento del ruolo delle cooperative: le cooperative e i loro consorzi regionali hanno dato vita infatti ad Appenninovivo – Europa, il consorzio nazionale, unitario, in quanto espressione di tutte le centrali cooperative.

 

Le risorse per la montagna

Stabilite le strategie, le modalità di attuazione e i soggetti per la realizzazione, rimane il problema, sempre complicato, di individuare le risorse cui attingere per il perseguimento degli obiettivi enunciati nella Carta. A tale scopo, anche per il futuro, si fa riferimento in primo luogo ai fondi strutturali e ai fondi che l’UE mette a disposizione delle regioni italiane per lo sviluppo rurale. Molte aspettative si sono alimentate sui fondi riferiti al periodo di programmazione 2007/2013, in via di ultimazione, ma se vogliamo essere realisti, si sono dimostrate spesso deludenti perché quelle risorse sono state utilizzate in una percentuale molto bassa, specie nelle Regioni dell’obiettivo convergenza (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia).
Per quanto riguarda le risorse statali, nonostante le “Linee guida di programmazione forestale” di cui al Dl del 16 giugno 2005 fissava in 250 milioni di euro il fabbisogno annuo, da spendere secondo piani regionali, nulla è stato mai stanziato se non un plafond di 50 milioni dalla Legge finanziaria 2008 (co 1082/1084) da spendere per i vari piani di settore, compreso quello forestale.
Vi sono poi gli interventi delineati dal Dl 180/98, il cosiddetto Decreto “Sarno” (Programmi di interventi urgenti di difesa delle aree a rischio idrogeologico) e compresi nel fondo per gli investimenti per la difesa del suolo e la tutela ambientale del Ministero dell’Ambiente ed infine gli “Interventi nel settore dell’uso del suolo e della forestazione per la generazione e certificazione dei crediti di carbonio” di cui al Piano nazionale per la riduzioni delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra 2003-2010 (protocollo di Kyoto).
Si tratta di somme sulla carta anche ingenti ma che non trovano concreta attuazione. Eppure potrebbero innescare un meccanismo virtuoso che migliorerebbe un ambiente da salvaguardare a fini produttivi, protettivi e turistico-ricreativi e allo stesso tempo porterebbe alla creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Lodevole è quanto annunciato dal Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, in merito alla necessità di “un piano straordinario per la sicurezza del territorio italiano in grado di affrontare sia l’emergenza che l’ordinarietà di una politica di prevenzione e messa insicurezza dell’intero territorio”. Questo intervento dovrebbe configurarsi però come un progetto nazionale da concertare con le Regioni in quanto si fa riferimento all’emergenza nazionale (probabilmente europea) che chiama in causa, oltre che, come detto, le Regioni, una pluralità di Istituzioni, di competenze e, quindi, di ministeri diversi (almeno Ambiente, Sviluppo Economico, Agricoltura, Beni Culturali  e Lavoro).
Il concorso organico di interventi (e di risorse) è da allocare fra quelli finalizzati allo sviluppo, quello sostenibile, produttivo di sicurezze, base per il rilancio delle attività economiche, del turismo, del made in italy, fonte di consolidamento e sviluppo occupazionale, in una parola, della tanto implorata “ripresa".
Il fulcro concreto del New Deal lanciato dal Presidente Roosevelt, all’indomani della grande crisi del 1929”, scriveva Mario Tozzi in un editoriale del quotidiano La Stampa di Torino (8/11/2010), “fu, non a caso, la messa in sicurezza del territorio”. “Se c’è un Paese al mondo che godrebbe vantaggi immensi da un new deal dell’ambiente, da una riconversione ecologica che lo porterebbe anche fuori dall’emergenza economica, […] questo è proprio l’Italia”.
Curare un territorio fatto di boschi (10,5 milioni di ha, per il 50% abbandonati), di suoli (50% a rischio idrogeologico), di territori a rischio frane (su 712 mila frane censite in Europa, 486 mila, pari al 6,9% del territorio e ad una superficie complessiva di circa 21 mila Km2, si concentrano in Italia), di bacini idrografici, significa porre le basi del rilancio del Paese, attraverso il turismo e la riconversione economica, consolidando e sviluppando occupazione anche facendosi carico di assorbire parte dei licenziati o cassintegrati provenienti dalle fabbriche in crisi.
Dato che un posto di lavoro nel settore costa dai 25 ai 30 mila €/annui, un investimento di 500 milioni di Euro, produrrebbe subito dai 15 ai 20 mila nuovi posti di lavoro!
La Carta di Fonte Avellana, avendo proposto e poi alimentato queste politiche, ancor prima dell’attuale enfasi sulla gestione sostenibile del territorio, si configura come severo monito per un grande progetto per il territorio da concepire come la più grande, probabilmente la più urgente opera infrastrutturale di cui il Paese ha bisogno.  

 

Dal Progettone trentino al progetto Appennino

Nel Forum di Fonte Avellana del 1996, Orlando Galas, allora dirigente del Servizio ripristino e Valorizzazione ambientale della Provincia autonoma di Trento, illustrò l’esperienza di dieci anni del cosiddetto “Progettone”, il progetto speciale per l’occupazione attraverso la valorizzazione delle potenzialità turistiche  ed ecologico-ambientali per far fronte all’emergenza occupazionale creatasi a metà degli anni ’80.
L’idea di operare con un progetto speciale nacque a seguito dell’emergenza ambientale manifestatasi dopo la tragedia di Stava che aveva inferto, anche nell’immaginario collettivo, un duro colpo alle potenzialità turistiche del Trentino e dell’emergenza occupazionale conseguente alla crisi di alcune grandi aziende manifatturiere del territorio.
In dieci anni il fatturato delle cooperative impegnate nel progetto è passato da 500 mila € a 18 milioni di € e le stesse cooperative, cresciute nel frattempo nel numero, avevano realizzato altri 18 milioni di € operando sul libero mercato. “Il progetto è stato possibile”, concludeva quel dirigente, “non perché eravamo e siamo Provincia autonoma, ma perché l’acqua era talmente alta da costringerci a nuotare, non avendo ancore di salvataggio”.
Il Progettone è cresciuto, conseguendo negli anni risultati lusinghieri ed oggi è diventato uno dei primi datori di lavoro del Trentino Alto Adige (www.naturambiente.provincia.tn.it).
E’ stato questo un messaggio chiaro per le Marche, un incentivo a lavorare per un progetto per l’Appennino che, dopo un percorso di altri dieci anni, ha visto finalmente la luce. 
La sintesi operativa è rappresentata dall’art. 26 della L.R. n. 31 del 22 dicembre 2009 che istituisce il “Progetto Appennino”. L’art. 1 recita: “in attuazione degli impegni assunti dalla Regione con la firma della Carta di Fonte Avellana, al fine di valorizzare e sviluppare gli interventi per la montagna e le forme organizzate di lavoro forestale e di dare continuità alle attività in essere, favorendo nel contempo la creazione di nuovi posti di lavoro, attraverso la valorizzazione delle potenzialità turistiche ed ecologico-ambientali nel quadro di una politica attiva dell’ambiente, viene avviato il ‘Progetto Appennino’: la Montagna come occasione di sviluppo ed occupazione”.
Il progetto costituisce un programma di interventi nell’appennino marchigiano con il coinvolgimento delle Comunità montane, dei Comuni, dei Centri per l’impiego, l’orientamento e la formazione e delle Cooperative forestali, con i seguenti obiettivi specifici:

  • dare continuità nel tempo e nel territorio alle attività di manutenzione, recupero, salvaguardia, miglioramento, valorizzazione e messa in sicurezza del patrimonio forestale e naturale, e più in generale dell’ambiente e del territorio, attraverso un’occupazione stabile delle maestranze che già lavorano nel settore allo scopo di garantire anche il presidio del territorio e la residenza nelle aree rurali e montane;
  • far fronte all’emergenza occupazionale provocata dalla crisi economica e dalla fragilità dei sistemi economico-sociali montani, individuando interventi organici, in conformità con gli indirizzi programmatici della Regione e del piano forestale, che siano in grado di offrire garanzie lavorative agli iscritti nelle liste di mobilità da reimpiegare, nel campo della difesa del suolo, della sistemazione idraulico-forestale, del verde pubblico, della gestione del demanio forestale e della selvicoltura.

L’insieme degli interventi si articola in due fasi:

  • interventi già previsti e finanziati dal Piano di sviluppo rurale 2007/2013, dal Protocollo d’Intesa per la difesa del suolo sottoscritto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in data 5 settembre 2007, dal FAS 2007/2013 (Fondo per le aree sottoutilizzate), dal bilancio di previsione 2009 della Regione; 
  • nuovi interventi attuabili a medio termine che richiedono un’elaborazione progettuale e potranno essere avviati, una volta individuate le risorse necessarie.

Questi ultimi sono diretti prioritariamente:

  • al recupero e alla valorizzazione del patrimonio forestale pubblico e privato e di aree di particolare interesse ambientale;
  • alla tutela e conservazione attiva dei territori ad alto valore ecologico;
  • al ripristino ambientale di aree pertinenti a fiumi, torrenti, laghi e alla realizzazione di interventi di ingegneria naturalistica e di sgombero degli alvei volti alla prevenzione di dissesti locali e di alluvioni;
  • alla bonifica e risanamento di aree dissestate, cave dismesse e discariche abbandonate;
  • alla realizzazione, ripristino e manutenzione di aree ricreative, di sentieri turistici, di aree di sosta, e più in generale allo sviluppo delle infrastrutture turistiche a basso impatto ambientale; 
  • alla manutenzione tramite attività di recupero ambientale di aree circostanti ai centri abitati al fine di prevenire eventi calamitosi;
  • all’arredo a verde di aree residuali quali scarpate, svincoli stradali, aree di raccolta di rifiuti solidi urbani e depuratori, comprese le mascherature di insediamenti industriali e artigianali;
  • alla conservazione dei beni rientranti nel patrimonio ambientale, artistico, storico e culturale;
  • all’animazione culturale in tema ambientale e idraulico-forestale, da realizzarsi in particolare tramite l’informazione ed il supporto alle attività didattiche nella scuola, nonché all’attivazione di iniziative seminariali di studio e di divulgazione.

La struttura organizzativa regionale competente in materia di istruzione, formazione e lavoro svolge tutte le funzioni inerenti il coordinamento e l’organizzazione del progetto relativamente ai nuovi interventi attuabili a medio termine che richiedono un’elaborazione progettuale, con il coinvolgimento dei soggetti sopra indicati e avvalendosi delle professionalità presenti nelle strutture organizzative regionali competenti in materia di ambiente e paesaggio, foreste ed irrigazione, riordino territoriale e comunità montane, difesa del suolo, turismo e cooperazione.
L’esecuzione degli interventi avverrà anche mediante affidamento a favore di cooperative forestali.
Con la Legge finanziaria 2012, l’Assemblea Legislativa delle Marche ha stanziato 1 milione di Euro. Si tratta ora di vedere se queste risorse, seppure limitate ma utili per avviare il cantiere, si tramutino in iniziative pilota capaci di dimostrarne l’indubbia validità.

 

Note

(1) Atti del Forum “La montagna: da problema ad opportunità”, Eremo di Fonte Avellana, 18/19 maggio 1996.
(2) Atti del convegno “Appennino vivrai – La Risorsa Montagna: dai valori ai progetti”, Camerino 8/9 Maggio 1998.
(3) Il testo della Carta è riportato nel documento Bolognini T. (a cura) (2008), “Vivere la montagna, vivere di montagna”, disponibile al seguente link:
http://www.legacoopmarche.coop/modules.php?op=modload&name=Downloads&file=index&req=getit&lid=258.

La crisi e l’agricoltura marchigiana: tra congiuntura e declino

Roberto Esposti
Università Politecnica delle Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012


Introduzione

Sul tema “crisi e agricoltura”, dopo numerose analisi, interpretazioni ed approfondimenti (Esposti, 2009; De Filippis e Romano, 2010; De Filippis, 2012), è giunto il tempo chiedersi come le imprese e le famiglie agricole abbiamo risposto e stiano rispondendo a questa fase negativa: che segni ha lasciato nel tessuto produttivo questa crisi? Come ne esce rispetto a come ne è entrato? La crisi ha indotto sostanziali aggiustamenti strutturali e comportamentali? Rispetto a queste domande vi è tuttora una carenza conoscitiva che caratterizza in particolare l’agricoltura vista la scarsità di indagini congiunturali che vadano ad intercettare queste tendenze, questi aggiustamenti e le relative aspettative. È necessario, perciò, realizzare indagini ad hoc con dati micro (cioè con dati aziendali) che consentano di osservare, con tutti i limiti e le parzialità del caso, la risposta delle realtà produttive alla fase attuale.
Nello scorso aprile uno studio di questo genere, finanziato dall’Osservatorio Agroalimentare delle Marche e condotto su un campione di imprese e famiglie agricole marchigiane, è stato presentato alla Regione Marche (Esposti e Lobianco, 2012). La metodologia di analisi fa ricorso alle 483 imprese agricole del campione costante RICA delle Marche per il triennio 2007-2009. Su questo campione è stata condotta una indagine di campo tramite questionario (survey) in modo da cogliere direttamente percezioni ed aspettative relative alla fase di crisi compresa tra 2009 e 2011.

 

I risultati dell’indagine

Ciò che emerge dall’indagine condotta, in primo luogo, è che la congiuntura agricola negativa si confonde con un quadro di peggioramento permanente di natura strutturale, testimoniato dal declino di perfomance del settore in termini di numerosità, occupabilità, redditività (Esposti e Listorti, 2009) e confermato anche dalla recente rilevazione censuaria (Arzeni, 2011). In questo quadro di deterioramento complessivo, e largamente indipendente dalla congiuntura, la congiuntura stessa colpisce in una forma sostanzialmente differente rispetto ai comparti del manifatturiero e del terziario. Si registra certamente un impatto negativo sui redditi agricoli e, quindi, sui redditi complessivi della famiglia agricola, ma nel complesso tale impatto risulta debole, ancorché molto diversificato (Tabella 1). L’effetto sull’impiego di manodopera è persino meno significativo mentre, al contrario, viene segnalato un netto aumento dei prezzi dei mezzi della produzione agricola e, quindi, dei costi (Tabella 1 e 2). Questi movimenti dei prezzi implicano, da un lato, la graduale erosione dei margini operativi, e quindi della redditività, delle imprese agricole; dall’altro, si traducono in maggiore incertezza e vulnerabilità delle stesse con conseguente aumento dei rischi di insostenibilità finanziaria.  

Tabella 1 – Percezione della variazione di reddito famigliare, reddito agricolo, prezzi dei mezzi di produzione (carburanti, fertilizzanti, sementi, ecc.) e impiego di manodopera durante la crisi (periodo 2009-2011; % di risposte al questionario) 

 

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Tabella 2 – Principali criticità durante la crisi (% di risposte al questionario)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Tale vulnerabilità sembra particolarmente accentuata proprio nel caso dell’agricoltura regionale che appare meno pronta a rispondere a questo complessivo peggioramento del quadro proprio in virtù di alcune sue caratteristiche strutturali. Una dimensione economica media ampiamente inadeguata alle sfide, un’età media dei conduttori piuttosto elevata, un graduale impoverimento di risorse umane e una spinta semplificazione produttiva a favore di prodotti a basso valore aggiunto. Dalle Tabelle 3 e 4, in effetti, emerge una chiara prevalenza di imprese che hanno preferito rinunciare, rinviare o limitare le scelte di investimento e, al contrario, hanno intrapreso percorsi di disinvestimento o disimpegno dall’attività agricola. Nel complesso, pur operando una forte semplificazione, è possibile fare emergere tre tipologie distinte di imprese-famiglie rispetto alla risposta alla crisi.

Tabella 3 – Scelte di investimento durante la crisi (% di risposte al questionario)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Tabella 4 – Principale strategia di reazione alla crisi (% di risposte al questionario)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

Un primo numeroso gruppo di imprese è contraddistinto da realtà produttive di piccole dimensioni economiche e fondiarie, in cui la famiglia si è ormai ampiamente affrancata dall’attività agricola dal punto di vista reddituale e per cui il proseguimento dell’attività risulta legato alla presenza di soggetti anziani e alla volontà-necessità di conservare e valorizzare un patrimonio difficilmente liquidabile. Si tratta di imprese che di fatto stanno progressivamente abbandonando l’attività agricola, con un orientamento al mercato limitato e in riduzione e per le quali la “crisi” ha semplicemente accelerato questo orientamento strategico.
Un secondo e corposo gruppo di imprese è costituito da realtà produttive di dimensione media (talora persino grande) che sembrano assecondare una strategia sostanzialmente attendista. Investimenti molto limitati o nulli, scelte produttive conservative, limitazione nell’uso del lavoro, contenimento dei costi e, quindi, una implicita scelta di estensivazione produttiva che non può che compromettere le perfomance produttive nel più lungo periodo. In queste realtà, avendo accentuato il grado di incertezza, la crisi ha fatto ulteriormente prevalere un atteggiamento di prudenza e di avversione al rischio.
Un terzo gruppo, infine, è costituito da una porzione limitata di imprese piuttosto eterogenee come orientamento produttivo, collocazione geografico-territoriale e, soprattutto, dimensione. Si tratta di imprese dinamiche che mostrano una crescita di perfomance produttiva e reddituale; ve ne sono di grandi dimensioni, ma anche di dimensioni medie e piccole. Le prime trovano spesso i motivi del loro successo in una recuperata competitività legata a scelte produttive orientate all’efficienza tecnologica e allocativa, all’orientamento al mercato. Le seconde, invece, devono il loro successo a scelte spesso coraggiose, eterogenee tra loro, di diversificazione produttiva in senso multifunzionale. Si tratta di quella combinazione di medie imprese competitive e piccole imprese innovative (“le fabbriche della multifunzionalità”) che viene da più parti considerata l’unica via perseguibile verso una rinnovata competitività da gran parte delle realtà produttive territoriali italiane agricole e non. Ad accomunare queste due diverse tipologie, sono una professionalizzazione molto spinta, la presenza imprenditoriale giovanile (spesso anche femminile) e il contributo di risorse umane e finanziarie provenienti da altri settori.
Come detto, tuttavia, la maggior parte delle imprese agricole professionali della regione sembra collocarsi in una condizione di attesa. Imprese con scarsi investimenti e minime scelte orientate al lungo periodo ma che, comunque, mostrano uno sforzo continuo di mantenimento di livelli minimi di redditività da conseguire prevalentemente attraverso razionalizzazione e contenimento dei costi anche in relazione all’appesantirsi dei prezzi di molti fattori della produzione. Scelte operate nell’attesa che il quadro congiunturale torni positivo e che i mercati riassorbano parte della volatilità ma che, sebbene prevalentemente ispirate a questo orizzonte di breve termine, tendono ad estensivizzare la produzione con conseguenze di lungo periodo che non possono che essere di una ulteriore contrazione della creazione del valore e della redditività complessiva.
Sia le imprese in progressiva marginalizzazione che quelle “in attesa” non sembrano volere o potere intraprendere strategie di riposizionamento attivo sia per ragioni famigliari e anagrafiche (conduttori anziani in mancanza di ricambio certo nella guida dell’impresa) sia per il sostanziale isolamento in cui si trovano ad operare. Poche le relazioni commerciali, poche le relazioni con le altre imprese e con il sistema dei servizi, in ogni caso di norma a carattere prevalentemente locale e fortemente consuetudinarie. Una difficoltà di networking che traduce la debolezza dimensionale, l’età avanzata e l’appiattimento produttivo in una frammentazione molto spinta che non permette di far emergere percorsi di crescita collettivi su base territoriale o di filiera.


Politiche per l'impresa

Sulle debolezze sopramenzionate dovrebbe poter agire un’appropriata politica per il settore agricolo regionale al fine di avviare l’intero sistema regionale verso il recupero di competitività (e quindi di redditività) mediante scelte strategiche di riorientamento al mercato, di nuove relazioni di filiera, di costruzione di percorsi di qualità che allarghino anche gli orizzonti di mercato al di fuori dei ristretti confini locali. L’attuale politica agricola comunitaria, tuttavia, palesa chiari limiti e contraddizioni che emergono con chiarezza nello studio condotto. Le scelte operate dalla Regione, in effetti, riguardano quella porzione della PAC, il secondo pilastro, che è complessivamente poca cosa rispetto al primo. Quest’ultimo opera massicciamente ed in modo indifferenziato, soverchiando, in termini di flussi finanziari complessivi, il secondo pilastro (Tabella 5) e non fornendo, di fatto, alcun incentivo al riorientamento, all’aumento dimensionale, all’intensificazione dei network e delle forme di aggregazione. Di fatto, un aiuto al reddito che non ha alcun profilo anticiclico dal momento che non ha alcuna relazione con la situazione reddituale aziendale e famigliare (Tabella 5). Risulta quindi anche incapace di fornire un sollievo selettivo al comparto nelle fasi congiunturali negative. Ma, comunque, un contributo che rischia di spiazzare o attenuare l’efficacia selettiva degli interventi programmati dalla Regione nell’ambito del secondo pilastro. E’ evidente come questi ultimi pagamenti siano maggiormente finalizzati a percorsi di crescita e riposizionamento ma, in realtà, vanno ad incidere realmente solo su una porzione limitata di realtà aziendali dinamiche. Per le altre, anche il secondo pilastro va a giustificare scelte di aggiustamento passivo e rendite, con automatismi che finiscono per premiare comunque lo status (a cominciare dalla dimensione economica e fondiaria) piuttosto che comportamenti e progetti di sviluppo a cui corrispondano scelte di investimento di rilancio e riposizionamento aziendale (Tabella 5).

Tabella  5  - Pagamenti della PAC (primo e secondo pilastro) e crisi (dati RICA e risposte al questionario)

Fonte: nostre elaborazioni su dati RICA

 

Riferimenti bibliografici

Arzeni, A. (2011), “L’evoluzione dell’agricoltura marchigiana. Una lettura dei dati provvisori del censimento 2010”, Agrimarcheuropa, n. 0, disponibile al seguente link:
http://agrimarcheuropa.univpm.it/content/l%E2%80%99evoluzione-dell%E2%80%99agricoltura-marchigiana.
De Filippis, F. (a cura di) (2012), “Crisi economica e manovra di stabilizzazione. Quali effetti per l’agroalimentare?”, Gruppo 2013-Coldiretti, Quaderni, Roma: Edizioni Tellus.
De Filippis, F., Romano, D. (a cura di) (2010), “Crisi economica e agricoltura”, Gruppo 2013-Coldiretti, Quaderni, Roma: Edizioni Tellus.
Esposti R. (2009), “La crisi vista dall’agricoltura: cosa dicono i numeri”, Agriregionieuropa, 5 (18), pp. 1-8.
Esposti, R., Listorti, G. (2009), “La competitività agroalimentare regionale” in: Arzeni, A. (a cura di), Il sistema agricolo e alimentare nelle Marche. Rapporto 2008, Roma: INEA - Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 339-368.
Esposti, R., Lobianco, A. (2012), “La crisi e l’agricoltura marchigiana. L’impatto sulle aziene e la percezione degli agricoltori”, O&A-Osservazioni e Analisi, Osservatorio Agroalimentare delle Marche, INEA-Regione Marche, Ancona.
Sotte, F. (2005), “La natura economica del PUA”, Agriregionieuropa, 1 (3), pp. 15-18.  

Le malattie professionali dei lavoratori del settore agricolo in Italia

Un’analisi statistica delle recenti tendenze


Velia Bartoli
Università di Roma “La Sapienza”

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Generalità e metodologia

Si definiscono malattie professionali gli “stati morbosi” che derivano dall’esposizione prolungata a fattori di rischio connessi all’attività lavorativa svolta, in relazione all’ambiente, ai mezzi utilizzati, alla postura sul lavoro, così come agli agenti fisici e chimici cui si viene esposti (D.P.R. 1124, 30 giugno 1965). Tali malattie, sia per il numero elevato che per la gravità delle conseguenze sulla salute dei lavoratori, rappresentano un costo umano e socio-economico assai rilevante (Ortolani et al., 2006), almeno pari a quello degli infortuni sul lavoro, rivestendo inoltre  un interesse sempre crescente in ragione di svariate motivazioni: il cambiamento dei rischi e dell'esposizione ad essi, in funzione del cambiamento del mercato e dell'organizzazione del lavoro; l'esposizione extralavorativa in ambiente di vita a specifici rischi (già presenti o meno in ambiente lavorativo); il ruolo di stili e abitudini di vita come concausa nel determinare specifiche patologie. Tutto ciò ha portato alla comparsa di nuove patologie correlate al lavoro nonché al mutamento di quelle esistenti, determinando lo sviluppo di studi e ricerche mirati a colmare il deficit conoscitivo, e nel contempo a indirizzare più adeguatamente le strategie di contenimento del numero e della gravità dei fenomeni patologici.L’agricoltura in Italia è da sempre uno dei settori produttivi più importanti anche se presenta numerosi punti critici per ciò che riguarda la tutela della salute e sicurezza sul lavoro (Bartoli V. e Bartoli L., 2011). Malgrado tutte le trasformazioni ed evoluzioni tecnologiche, l’agricoltura italiana ha conservato caratteristiche peculiari e ben differenziate da tutti gli altri settori produttivi. Il lavoratore agricolo, infatti, solitamente si occupa di colture differenti, svolgendo più mansioni nella stessa giornata, prevalentemente in ambiente esterno, su terreni spesso irregolari, utilizzando macchine e prodotti chimici tipici di ciascuna lavorazione. A queste caratteristiche generali, se ne aggiungono altre di tipo sociale, quali ad esempio la sovrapposizione tra ambiente di vita e di lavoro, la dispersione territoriale delle aziende agricole, il ridotto numero di addetti per azienda, la prevalenza di lavoratori autonomi rispetto a quelli dipendenti, l’età media avanzata degli agricoltori. La molteplicità e l’eterogeneità dei diversi lavori colturali comportano una notevole varietà di rischi per la salute  dei lavoratori, specifici per ciascuna coltura e variabili in funzione dei cicli stagionali e dei diversi momenti del processo produttivo. L'analisi dei tassi di frequenza delle malattie professionali denunciate all'Inail rappresenta in buona misura quanto percepito dai lavoratori in merito alle possibilità di ammalarsi a seguito dell’attività lavorativa svolta nel settore agricolo, nonché le dimensioni del fenomeno che le autorità competenti sono chiamate a gestire. Si ritiene inoltre che detta analisi possa risultare utile a svolgere una valida azione di sensibilizzazione diretta sia ai lavoratori che ai datori di lavoro.
In questo  lavoro si vogliono passare in rassegna i principali fattori di rischio per la salute  dei lavoratori agricoli, focalizzando l’attenzione sulle principali tecnopatie riscontrate nel settore.  L’analisi è stata svolta, separatamente per ciascuno dei due sessi, quantificando il fenomeno mediante i rapporti (moltiplicati per 1000 e definiti “tassi di incidenza”) tra il numero annuale delle malattie denunciate all’INAIL dai lavoratori agricoli – distinte in base al tipo di patologia – e il corrispondente ammontare degli occupati nello stesso settore primario negli anni dal 2005 al 2010.
Quanto alle statistiche di base, si è fatto ricorso ai dati delle rilevazioni INAIL e ISPESL in materia di denuncie di malattia, mentre quale popolazione di riferimento si è considerata quella risultante dalle rilevazioni ISTAT sulle “Forze di lavoro” negli anni suddetti.

 

Descrizione dei principali risultati

Nel 2010 il settore agricolo ha registrato oltre 6400 denunce di malattie professionali (INAIL, 2010), cifra che rappresenta il valore più alto degli ultimi 15 anni,  confermando e anzi accelerando la crescita del fenomeno osservata fin dal 2007. L’aumento del numero delle denunce di malattie professionali, specialmente per quanto riguarda l’agricoltura, che può essere dovuto solo in parte al peggioramento delle condizioni di lavoro, risulta legato principalmente a tre aspetti di seguito elencati.
In primo luogo, dipende dalla partecipazione come relatori dei medici che nei convegni e seminari promossi  dalle parti sociali, da società scientifiche nazionali e da altri enti contribuiscono a sensibilizzare gli operatori del settore agricolo e i medici di base ad una maggiore attenzione nei confronti delle malattie lavoro-correlate, comportando una più matura consapevolezza raggiunta da lavoratori e datori di lavoro.
In secondo luogo, le malattie, rispetto agli infortuni determinati da un evento istantaneo e traumatico,  presentano peculiarità di insorgenza di natura lenta e talora subdola, che richiede tempi di latenza e di palese manifestazione anche molto prolungati.
In ultimo, la stessa istruttoria Inail, nel caso di alcune patologie, è più complessa e lunga rispetto ai casi di infortunio, senza contare che sulle malattie correlate al lavoro emergono sempre nuove conoscenze scientifiche. Appunto  per questo, i casi denunciati potranno continuare ad aumentare facendo emergere una visione più realistica della situazione portando, com’è auspicabile, a una prevenzione sempre più attenta e aggiornata (Rossi, 2010).
In merito alle patologie professionali che possono colpire il lavoratore agricolo, si può fare una classificazione che prevede malattie legate all’ambiente di lavoro, nonché a materiali e a strumenti di lavoro  (Battaglini, 2006). Tra le prime, sono da segnalare i danni provocati da agenti atmosferici (affezioni respiratorie, reumatologiche ecc.). Nelle patologie da materiali vanno evidenziate le affezioni acute e croniche derivate dal contatto con animali, dall’uso di pesticidi e dalla manipolazione di concimi sia naturali che di sintesi. Le patologie da strumenti agricoli sono caratterizzate in prevalenza da lesioni traumatiche di vario tipo ed entità quali, ad esempio,  danni da vibrazioni, otopatie da rumore, artropatie da microtraumi e intossicazioni da gas di scarico. Disturbi muscolari e articolari, come pure atteggiamenti viziati e finanche deformazioni, sono infine determinati da posture di lavoro innaturali – obbligate o meno – ovvero da posizioni incongrue (Smuraglia, 2008).
La Tabella 1 descrive la graduatoria  dei tassi di incidenza delle malattie professionali  per regione e settore di attività economica. Nel settore agricolo, le regioni che mostrano i tassi di incidenza più elevati sono: Abruzzo, Sardegna, Marche e Umbria. E’ interessante notare come le prime tre regioni menzionate condividano lo stesso risultato negativo anche nei settori non agricoli.
La diversa composizione per settori a livello regionale che potrebbe influenzare la minore o maggiore presenza di tecnopatie non basta da sola a giustificare le differenze riscontrate. Un ulteriore fattore potrebbe essere l’elevato tasso di sottodenuncia del fenomeno legato alle malattie professionali che spiegherebbe i bassi tassi di incidenza registrati da regioni quali Sicilia, Lazio,  Lombardia e Calabria.

Tabella 1 – Graduatoria dei tassi di incidenza delle malattie professionali (malattie x 1000 occupati) per regione e settore di attività economica, media 2008-2010

Fonte: elaborazioni su dati INAIL e ISTAT

L’esame degli indici di incidenza delle malattie professionali denunciate per la “gestione agricoltura” contenuti nella Tabella 2 inriferimento all’insieme dei due sessi e al totale delle malattie, mostra il generale forte aumento (dall’1,39 per 1000 del 2005 a7,16 del 2010) subito dall’indice nel breve periodo considerato. Maggiormente rappresentata è la patologia a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, che nell’ultimo decennio ha preso il sopravvento sulla ipoacusia da rumore e sulle malattie respiratorie che hanno storicamente rappresentato le patologie professionali più segnalate in ambito agricolo (Draicchio et al., 2007).
Passando a considerare più in dettaglio gli indici della Tabella 2, emerge con chiarezza come il tasso di incidenza delle malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee dei lavoratori agricoli sia sistematicamente – e in misura considerevole – superiore a quello delle altre tecnopatie nell’ambito di ognuno dei due sessi. Inoltre è immediato riscontrare per dette patologie le rilevanti disparità  tra lavoratori e lavoratrici  a tutto  svantaggio di queste ultime: infatti il valore dell’indice di incidenza nel 2010 risulta per le femmine circa il doppio di quello maschile  (9,69  per 1000 contro il 4,74). 
Tale circostanza è del resto assai verosimile, visto che queste tecnopatie derivano principalmente dall’uso di mezzi e attrezzi meccanici (dal trattore all’aratro, dalle macchine per la raccolta a una vasta gamma di attrezzature) spesso pesanti e poco ergonomici per le lavoratrici (Smuraglia,  2008).  Se inoltre si fa riferimento ai tassi di incidenza femminili per il totale delle malattie (Tabella 2) è possibile valutare in modo più analitico la penalizzazione delle lavoratrici agricole rispetto ai lavoratori. I  valori  dell’indicatore  di incidenza  per il totale delle malattie passano da 1,2 nel 2005 a 5,9 nel 2010 per i maschi, cui fanno riscontro quelli notevolmente più alti (da1,8 a 10,3 per le femmine).  Le donne rappresentano – secondo i dati Istat – più del 39% della forza lavoro impiegata nell’agricoltura italiana, mentre il 30% delle aziende agricole è gestito da imprenditrici  (ISTAT 2005-2010). Un esercito di lavoratrici efficienti e motivate ma esposte più degli uomini ai fattori di rischio: il lavoratore agricolo svolge  la propria attività in un ambiente di lavoro soggetto alle variazioni climatiche, con ritmi lavorativi particolari e variabili, usando mezzi e attrezzi pesanti, tutte condizioni che evidentemente mal si adattano alle caratteristiche fisiche femminili.

Tabella 2 – Tassi di incidenza delle malattie professionali (malattie x 1000 occupati) nel settore agricolo in Italia, per tipo di tecnopatia e sesso negli anni indicati

Fonte: elaborazioni su dati ISPESL, INAIL e ISTAT

Prendendo in considerazione i numeri indici temporali (2005 = 100) contenuti nella Tabella 3, viene ulteriormente precisato il generale andamento crescente dei tassi di rischio: questi risultano mediamente quintuplicati (514,9 nel 2010 fatto uguale a 100 il valore del 2005), con riguardo all’insieme dei due sessi. L’aumento più marcato riguarda le malattie dell’apparato muscolo-scheletrico (721,6). Viceversa l’andamento crescente sembra non riguardare i disturbi psichici da stress, i cui  valori oscillanti nel periodo considerato non presentano una decisa tendenza.

Tabella 3 – Numeri indici (2005 = 100) dei tassi di incidenza delle malattie professionali del settore agricolo in Italia, per tipo di tecnopatia e sesso negli anni indicati

Fonte: elaborazioni su dati ISPESL, INAIL e ISTAT

 

Conclusioni

Il comparto dell’agricoltura in Italia presenta numerosi punti critici per ciò che riguarda la tutela della salute e la sicurezza sul lavoro, in parte imputabili ad alcune peculiari caratteristiche del settore. In questi ultimi anni infatti, malgrado la progressiva riduzione del numero degli addetti dell’agricoltura, i casi di malattie professionali  hanno subito un aumento significativo: la meccanizzazione e l’uso di prodotti chimici, aggiunte alle difficoltà strutturali del lavoro nei campi, hanno accentuato ed esteso la probabilità di  rimanere vittima di una qualche malattia da lavoro (De Virgilio, 2010). Inoltre, l’agricoltore non svolge, in genere, lavorazioni esclusive ma è impegnato in più attività, il che lo espone a molteplici fattori di rischio, insiti nell’ambiente in quanto tale, nelle varie lavorazioni, nell’organizzazione del lavoro.
Dall’insieme degli indicatori presentati in questo lavoro è immediato riscontrare che i tassi di incidenza delle malattie professionali risultano notevolmente superiori per la componente femminile rispetto a quella maschile. Maggiormente rappresentata è la patologia a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, seguita dalla ipoacusia da rumore e dalle patologie del’apparato respiratorio. I dati evidenziano dunque la necessità di incrementare la consapevolezza del rischio negli operatori agricoli allo scopo di agevolare l’adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione.
Si consideri inoltre che il sistematico utilizzo di macchinari espone tra l’altro il lavoratore a rumore e a vibrazioni, così che sarebbe opportuno, per limitare alcune patologie riscontrate, impiegare attrezzi idonei (caschi, cuffie o inserti auricolari, guanti antivibranti), limitare la durata di esposizione e, quando possibile, scegliere macchinari poco rumorosi, con un minor grado di vibrazione e provvisti di sedili regolabili in base alla statura e al peso del lavoratore.
Una possibile forma di prevenzione delle malattie professionali potrebbe essere inoltre attuata effettuando interventi di sensibilizzazione sulle organizzazioni di categoria, al fine di garantire comunque una sorveglianza sanitaria di base, mirata alla generica valutazione dello stato di salute del lavoratore agricolo. Sarebbe anche utile coinvolgere i medici competenti che operano nel territorio nell’organizzazione di incontri con gli operatori del settore, finalizzati alla definizione di criteri per la sorveglianza e la prevenzione – anche con l’ausilio di specifici e mirati corsi di formazione – dei rischi legati alle malattie professionali (Rovelli, 2008).

 

Riferimenti

Bartoli L., Bartoli V. (2011), “Un’analisi statistica degli infortuni sul lavoro nell’agricoltura italiana tra il 2005 e il 2009”, Agriregionieuropa, anno 7, n. 24, marzo.
Battaglini E. (2006), “Salute, sicurezza e tutele nel lavoro”, Rapporto di ricerca IRES-INCA.
Brusco A., Gallieri D. (2010), “Il lavoro, gli infortuni e le malattie professionali”, INAIL.
Castel R. (2004), L'insicurezza sociale, Einaudi, Torino.
De Virgilio V. (2010), “Le nuove frontiere delle malattie professionali Tecnopatie e nuove prassi in tema nesso di casualità”. Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e del diritto del mercato del lavoro. Adapt – CQIA, Università degli Studi di Bergamo.
Draicchio F., Silvetti A., Papale A. (2007), “Valutazione del rischio da movimentazione manuale dei carichi nei settori agricoli della frutticoltura e orticoltura”. Focus, n. 3, pp. 65-77.
INAIL (2005-2010), “Rapporto annuale”, Roma.
ISTAT (2005-2010), “Rilevazione sulle Forze di lavoro”. Roma.
Ortolani G., Amatucci S., Cipolloni F., Brusco A. (2006), “Quanto costano all’azienda Italia i danni da lavoro; i nuovi criteri di valutazione; l’approccio metodologico di EUROSTAT su dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro”, Luglio, n. 7. 
Rossi A. (2010), L’infortunio sul lavoro e le malattie professionale, collana Professionisti e imprese,La Feltrinelli.
Rovelli M., (2008), Lavorare uccide, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano.
Smuraglia C. (2008), Le malattie da lavoro, Ediesse, Roma.

Albertino Castellucci (1910-2010) e il suo archivio

Un ricordo dell'impegno civile e politico nel centenario della nascita


Andrea Bonfiglio
Università Politecnica delle Marche

Agrimarcheuropa, n. 3, Settembre, 2012

Albertino Castellucci è nato a Sassoferrato il 23-9-1910, si è spento ad Ancona il 15-5-1980.

Una vita di costante impegno, personale e civile, la sua, sempre ispirata ai valori autenticamente cristiani, sempre sostenuta da un eccezionale rigore morale, che non escludeva una calda umanità e una gentilezza sempre attenta e cordiale.

Come parlamentare, come uomo di partito, corne amministratore, come sindacalista e come professionista, Castellucci fu sempre e soprattutto un uomo coerente con i suoi principi  fermo ai suoi obiettivi.

Diplomato geometra presso l’Istituto Salesiano di Gualdo Tadino, conseguì successivamente la laurea in Scienze economiche e commerciali all’Università e di Roma.

È di quegli anni la sua partecipazione. come militante dell’Azione Cattolica, al movimento di resistenza clandestino.

Nell’immediato dopoguerra, fondò la sezione della Democrazia Cristiana nella sua Sassoferrato, che lo volle Sindaco quasi ininterrottamente dal 1951 al 1975.

Nel 1958, già Segretario regionale DC, fu eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, dove fu confermato per ben sei volte dagli elettori marchigiani.

Membro della Giunta della CCIA di Ancona, fu Presidente del Consiglio dell’Ordine dei Dottori cornrnercialisti delle Marche, Presidente dell’Ente autonomo Fiera di Ancona e in questo incarico fu promotore e primo firmatario dell’atto costitutivo di Assonautica nel 1971.

Ma la sua sollecitudine più costante fu il mondo agricolo marchigiano e la necessità di una migliore qualificazione sociale e culturale dei coltivatori diretti, categoria di cui, dapprima come Presidente provinciale, poi regionale, quindi, a livello nazionale, membro autorevole della Giunta esecutiva. 
Della Confederazione, rappresentò e difese gli interessi economici e il valore umano.
Molto feconda l’attività di Albertino Castellucci come deputato. Fu vice presidente della Commissione permanente Finanze e Tesoro della Camera e membro di commissioni speciali, tra le quali la commissione interparlamentare dei Trenta per la riforma tributaria e la Giunta parlamentare delle elezioni. Nei 1968 è stato Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei Ministri nel secondo Governo Leone.
La sua attività parlamentare fu rivolta ai temi generali della politica nazionale e in particolare alla politica economica e finanziaria dei settori produttivi, là dove meglio poteva spiegarsi la sua competenza specifica e la sua esperienza.
Convinto europeista, è stato membro del Consiglio d’Europa e delI‘Assemblea dell’Unione dell’Europa occidentale.
Voce autorevole a favore e in difesa degli interessi regionali, si ricordano le tre interpellanze sulle ferrovie interne marchigiane, un ascoltato appello al Presidente del Consiglio per la conferma ad Ancona della Direzione compartimentale delle Poste, interventi per il potenziamento dei porto di Ancona, sui problemi della viabilità regionale, sui provvedimenti per il risarcimento dei danni dei terremoto, per l’aeroporto di Falconara.
Un vasto, vastissimo impegno che lo vedeva sempre presente a Montecitorio, ad assumersi le sue responsabilità, a corrispondere con equilibrio e saggezza alle molteplici istanze.
All’istituto di Storia delle Marche la famiglia ha consegnato l’Archivio personale di Castellucci.

 

Tratto da Santoro G., "Biografia di Albertino Castellucci", in Castellucci M. (a cura) (2012), Albertino Castellucci (1910-2010) e il suo archivio. Un ricordo dell'impegno civile e politico nel centenario della nascita, Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, n. 112, Anno XVI, Aprile, pp. 25-28.

 

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